Space Cowboy di Tommaso Paradiso
L’esordio dell’ex Thegiornalisti
di Luigi Ippoliti / 8 marzo 2022
Tommaso Paradiso ha fatto uscire un album solista e la cosa era piuttosto scontata. Se non da Fuoricampo, dove la retomania era ancora declinata a un’idea alt-pop, sicuramente da Completamente sold out, dove le scelte erano state fatte ed erano chiare. Possono esserci tutti i motivi possibili dietro una scelta del genere, ma la questione di base è una: Tommaso Paradiso è sempre stato una cosa a parte rispetto ai Thegiornalisti. Troppo più grande del gruppo, troppo più carismatico, troppo indipendente.
Quindi la separazione, la fine di un’era, che poi alla fine suona più come un semplice cambio di nome. Esce Space Cowboy, anticipato da diversi singoli-video in cui Paradiso indossa un cappello da cowboy e suona la chitarra. Cambiando qualcosina, mettendoci in mezzo il mito del ranch, rientra nell’immaginario a cui ci ha abituato, vascorossismo o ligabuismo, maschi soli alle prese con la solitudine, fatalismo e finta autocommiserazione.
C’è qualcosa che mi ronza in testa ogni volta che esce qualcosa di nuovo con la voce di Paradiso: non riesco a non fare un confronto con quello che faceva uscire agli esordi. Piuttosto scontato, ma inevitabile. Da Vol.1 sono passati undici anni. Ipotizzando di non conoscere nulla della discografia Thegiornalisti, se dovessimo dire “queste due cose sono uscite dalla testa dello stesso gruppo?”, o meglio, “dello stesso autore”, la risposta molto probabilmente sarebbe no.
Ora, non è che Vol.1 sia uno degli album alt-rock di inzio anni’10 da ascoltare assolutamente, album seminale o chissà cosa. Anzi, continua ad essere piuttosto trascurabile. Non siamo costretti, sostanzialmente, a sopravvalutarlo per giustificare quello che Tommaso Paradiso è diventato e che oramai rappresenta.
Però quel suono che finiva per forza dalle parti di Brooklyn nei primi 2000 (sì, gli Strokes) e che portava in sé qualcosa da dandy alla Baustelle, meritava attenzione. La base su cui costruire un’altra carriera? Forse. O forse doveva andare così. Ci appelliamo al fatalismo alla Paradiso.
Quello che è successo dopo, probabilmente da metà Fuoricampo in poi, ha i suoi motivi: i social, l’avvento dei Cani prima, l’avvento di Calcutta poi, l’itpop, il confine tra indie e mainstream sempre meno chiaro fino a scomparire sotto i colpi dei trapper.
Tommaso Paradiso piace allo star system (da Pardo a Mara Venier), è quello pescato dai bassifondi dell’Indie, belloccio, dandy. Un dandy innocuo – stesso essere innocuo, ora, rappresentato anche da Achille Lauro, e non è un caso che ci siano delle grosse somiglianze tra i due, per quanto possa non sembrare così. Tommaso Paradiso può inoltre parlarti della Lazio o della crisi ucraina con la stessa convinzione. A un mondo che in apparenza deve svecchiare, un personaggio del genere fa comodo: guardate che non siamo grigi come pensate, eh, sappiamo quello che succede/succedeva lì sotto.
Ma Tommaso Paradiso non è un corpo esterno, non è un estraneo. È lo status quo, la vocazione all’autoconservazione di un sistema bloccato. O perlomeno le sue ambizioni combaciano con il sistema di cui oramai è rappresentante. La raffigurazione di un sistema che per ringiovanire cambia due o tre cose e si mantiene sempre allo stesso modo.
Tommy Paradiso, comunque, compie la sua metamorfosi, toglie i panni di Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti e diventa finalmente il solo e unico Tommaso Paradiso, e oggi alla grande prova, quella dell’album, in un mondo in cui il disco può benissimo essere un’appendice, ci conferma di essere uno stranissimo e per questo normalissimo caso italiano.
Non cambia nulla rispetto al passato. Al suo passato recente. Perché nulla doveva e poteva cambiare. Tommaso Paradiso dà quello che ci si aspetta da lui. Precisamente quello. Il mare che ci aspetta e una ragazza che ci sta. I suoi wohooo. Anni ’80, gli anni’80 immaginati da Tommaso Paradiso. Non solo attraverso le sonorità. Anche attraverso riferimenti specifici di un certo tipo di anni ’80 nel cinema (il cargo battente bandiera liberiana di Borotalco, per esempio). La linea tracciata è sempre quella che arriva da Completamente sold out. Vasco Rossi, Venditti, De Gregori (partono i primi accordi di “Magari no” ed è veramente difficile non cantare Sole sul tetto dei palazzi in costruzione). Ma ci sono anche gli anni ’90 e in modo evidente Gianluca Grignani. Tutto il repertorio di Tommaso Paradiso, tutto già sentito, tutto già immaginato.
Space Cowboy conferma l’enorme capacità di semplificare di un artista che sembra stia svernando nel momento in cui di fatto inizia la sua carriera. Di semplificare il dolore. La fine. L’inizio. Le scelte. Gli errori. Di parlarne in maniera superficiale. Di trattare ogni cose in maniera blanda. Non accettandone la complessità, rendendola una cosa monodimensionale. I testi a forma di post di Facebook. Di nuovo. È un enorme manifesto della sua poetica, dei suoi diari.
Fa anche una strana simpatia il suo credere tantissimo a ciò che dice, cercando invece di mascherarsi da uno che non prende le cose sul serio, in balia di queste lunghissime strade alla Vasco Rossi – sempre la solita metafora, il solito spirito -, questa solitudine banale, la sigaretta in bocca e via.
Risulta difficile prendere sul serio quello che scrive. Come lo canta. L’effetto, questa malinconia-retorica, il più delle volte finisce per avere un risvolto comico: sono uno space cowboy, detto con quell’enfasi, dopo cinque canzoni enfasi/cuori spazzati/macomunqueiosonotommasoparadiso, fa ridere. Ti scappa da ridere.
Difficile trovare qualcosa che possa funzionare. O meglio. Potenzialmente funziona tutto, perché tutto è incastrato alla perfezione nel grande universo di Tommaso Paradiso. Nel mondo dove pure il fumo delle sigarette è di plastica.
È ovvio che non potesse mancare all’appello il compagno di avventure, Franco126, con cui duetta in “Amico Vero“, e la sensazione è sempre quella del video di “Stanza singola“: loro che dicono cose sulla vita, sulla fine delle storie, si fanno un giro in un posto bellissimo (in questo caso il Lungotevere), guardano da qualche parte in avanti. Una birra, le sigarette. Ma alla fine dei conti sono stati pure bene da soli. Il tutto al rallentatore, che dovrebbe rappresentare un certo tempo interiore che viaggia a velocità diversa rispetto all’esterno, dove tutto sta sempre per crollare, ma poi non crolla mai. Space Cowboy è quel video, e quel video è Space Cowboy.
Lo è perché Tommaso Paradiso è una parodia di Tommaso Paradiso. Non ci si aspetta più granché da lui da un punto di vista artistico. Usciranno i sui singoli e magari sarà il super ospite di uno dei prossimi Sanremo. E andrà bene così. Nel mondo di Tommaso Paradiso, alla fine, nel cielo c’è sempre un sole splendente. Sarà solo un po’ strano ripensare a “Siamo tutti marziani”, tra qualche mese, riascoltando l’ennesima canzone di Tommaso Paradiso che esce dalle casse di uno stabilimento balneare.
LA CRITICA
Space Cowboy è esattamente quello che ci si aspettava da Tommaso Paradiso. Solo questo, nient’altro.
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