Il quotidiano trionfo dell’assurdo
A proposito di “Orientamento” di Daniel Orozco
di Claudio Bello / 9 marzo 2022
C’è una donna in un grosso supermercato di un centro commerciale. Il suo obiettivo è il reparto dei biscotti, verso cui si trascina spinta da una pulsione quasi erotica. Peccato però che il megastore sia strapieno, sebbene sia notte (sebbene il suo desiderio sia travolgente), e che la corsia dei biscotti sia occupata da altre persone: prima una giovane coppia, attraente ma fastidiosa, poi un’altra donna, molto simile alla protagonista, quasi un suo doppio – o forse un suo giudice. L’assenza di privacy turba, e anzi de-sacralizza quel momento, e alla smania si sostituisce così la vergogna, accompagnata dalla disperazione. In “Storie di fame”, uno tra i racconti più riusciti dello scrittore statunitense Daniel Orozco, il momento dell’acquisto dei biscotti è un autentico rito, e il supermercato il suo tempio: l’ordinarietà più spicciola (quella del vizio superfluo, del consumo solitario, della bramosia a buon mercato) nella società tardo capitalista diviene il momento clou della giornata; il suo momento metafisico addirittura, o almeno quello che più si avvicina all’idea del sacro.
Nell’episodio di “Storie di fame” appena raccontato è proprio il non-senso ad acquistare il senso massimo: tutto può ritagliarsi narrativamente un ruolo, e un pacco di biscotti è un centro gravitazionale più che plausibile per una short story (e forse anche per un romanzo), un oggetto del desiderio di tale intensità da poter risolvere o distruggere un personaggio. È proprio in questa intercapedine tra senso e non-senso, necessario e superfluo – parlando in termini letterari, tra realistico e assurdo –, che si muove una certo tipo di letteratura contemporanea: si pensi ai supermercati di Don DeLillo in Rumore bianco, o al David Foster Wallace di Verso Occidente l’impero dirige il suo corso. Se però in DeLillo si percepiva un sentimento di sorpresa, di profezia (quello di una letteratura che anticipava il mondo, e non viceversa), e in Wallace, dietro l’ironia, una nostalgia triste verso qualcosa di irrimediabilmente perduto, nei racconti di Daniel Orozco a dominare la scena è un grottesco ormai normalizzato, un esaurimento nervoso eletto a condizione standard dell’umanità.
I racconti che Orozco ha raccolto in Orientamento – pubblicato negli Usa nel 2011 e in Italia da Racconti edizioni dieci anni dopo – d’altronde si svolgono quasi sempre in ambito lavorativo: il posto di lavoro, e in particolare l’ufficio, è infatti – in parallelo e ancor più del supermercato – il vero tempio della contemporaneità. È in ufficio che di solito si diramano in tutta la loro incoerenza le questioni “superflue ma decisive” nella vita delle persone, e che si colgono appieno le contraddizioni di una società insieme individualistica e massificata. Le storie di Orozco raccontano appunto il quotidiano trionfo dell’assurdo, e in fin dei conti si potrebbero definire “realistiche”, se intendiamo per realtà questo coacervo di finzione pubblicitaria, produttività a tutti i costi e mero istinto di sopravvivenza. Si tratta forse di un “nuovo quotidiano”, come se quello che un tempo avremmo chiamato postmoderno fosse slittato infine nel genere realistico. Tanto è vero che in quarta di copertina si fa riferimento non solo a Kafka (oracolo massimo degli incubi burocratici tipici del lavoro dei nostri tempi), ma anche a Raymond Carver, quasi che l’unico minimalismo possibile oggi fosse un lucido rendiconto del caos.
I dieci anni passati dal momento della prima pubblicazione di Orientamento rendono la normalizzazione dell’assurdo descritta da Orozco ancora più evidente, soprattutto nel mondo del lavoro: non è un caso che in piena pandemia sia scoppiata la cosiddetta Great Resignation, fenomeno sociale per cui un importante numero di lavoratori ha abbandonato il proprio impiego negli Stati Uniti – con riflessi anche in Italia. Secondo il New York Times, solo ad agosto 2021 4,3 milioni di americani hanno lasciato il lavoro. Le cause sono quelle che sociologi e filosofi analizzano già da anni: paghe basse, stress, sindrome da burnout. E sicuramente il Covid. La pandemia infatti ha funzionato da acceleratore di questi processi e anche da lente, mostrando palesemente quanto gli incubi che la letteratura e il cinema avevano immaginato fossero reali già da molto – troppo – tempo. I racconti “da ufficio” di Orozco si posizionano simbolicamente proprio nell’attimo precedente alla Great Resignation, quello della realizzazione, e in altre parsole dell’esasperazione, o della sconfitta.
Un racconto come “Orientamento” – che dà il titolo alla raccolta – sembra, più che un incubo, un paradossale resoconto. Il tema è quello del primo giorno di lavoro di un neoassunto; la voce narrante quella di un suo collega che gli spiega il “modo corretto” di comportarsi in ufficio, in un misto di orrore burocratico («Questo è il tuo Indice dei Codici Numerici degli Analisti dei Protocolli. E questo il tuo Manuale alla Procedura per il Protocollo dei Formulari»), idiosincrasie dei colleghi («John LaFountaine non è pericoloso, le sue scorribande nel territorio proibito del bagno femminile niente più che una fregola innocua»), informazioni grottesche e minacciose («Quella lì è la postazione di Kevin Howard. Lui è un serial killer. Quello che chiamano lo Sgozzatore della Moquette, responsabile di diverse mutilazioni in citta»). Leggendo le assurdità propinate al protagonista di “Orientamento” si percepisce un sottile – ma gravoso – senso di familiarità (una sorta di versione aggiornata del perturbante freudiano). Incredulità, minaccia, e poi familiarità, divertimento, addirittura conforto, sono tutte emozioni che il lettore sperimenta leggendo questo (magistrale) racconto. Orozco potrebbe configurarsi allora come discepolo di Kafka, dei suoi labirintici corridoi e delle sue metafore vuote: in Kafka però l’individuo (anche l’individuo eletto come K.) si annullava nella moltitudine, si abbandonava a una Legge misteriosa ma ineludibile; qui invece tutti i personaggi hanno una personale versione della Legge – e cioè qualcosa da raccontare, qualcosa per cui stare male. L’ufficio di Orozco è un coacervo di grida di uomini soli, incapaci di comunicare.
La cosa che a un lettore giovane verrebbe più semplice associare a un racconto come “Orientamento” probabilmente è la serie tv The Office (in origine un remake della omonima serie inglese di Ricky Gervais), che racconta le vicissitudini degli impiegati di un ufficio di un’azienda cartiera della Pennsylvania. The Office è in primis una serie divertente, ma ha anche un’anima impegnata: la sua è una critica al sistema lavorativo americano attraverso l’espediente dell’esagerazione grottesca di dinamiche reali (un metodo molto simile, appunto, a quello di Orozco). Negli ultimi anni una nuova fascia di spettatori entrati da poco nel mondo del lavoro si è approcciata alla sit-com (andata in onda tra il 2005 e il 2013), che si è subito configurata come un ritratto agrodolce di situazioni che la generazione del precariato si trova a vivere quotidianamente. In The Office il lavoro è a metà tra l’incubo e il gioco, le mansioni sono noiose e le direttive incomprensibili, i diritti dei lavoratori spesso calpestati, e insomma – anche se tutto è dannatamente divertente – l’alienazione è massima. La sigla della serie tv è un ironico inno al superfluo, con evidenziatori, fotocopiatrici, calcolatrici e tritacarte che prendono la scena, riproducendo quel senso del non-senso di cui si parlava prima (a proposito dei biscotti). Quelle innescate da The Office sono in definitiva delle risate stranianti: sembra impossibile che il mondo del lavoro sia davvero così, ma al contempo è innegabile che realtà e fiction si assomiglino molto.
Tornando però a Orozco, al tema dell’ufficio come teatro dell’assurdo va associato un altro dei racconti meglio riusciti di Orientamento. Il titolo è di per sé emblematico: “Racconti interinali”. Si tratta di una storia divisa in tre capitoli, dedicati ai tre lavori svolti da una donna, Clarissa Snow, in un dato periodo della sua vita (tutti e tre procurati da un’agenzia interinale). All’inizio Clarissa è una centralinista dell’Ufficio Risorse Umane in un ospedale, poi la redattrice di un misterioso Rapporto Segreto per il vicepresidente in un’agenzia di assicurazioni, infine un’impiegata nella Cancelleria Municipale. Quella di Clarissa pare quasi un’avventura picaresca, una migrazione disperata tra diversi lavori, uno più inutile e frustrante dell’altro – eccetto l’ultimo, forse, dove la donna sembra aver trovato un certo equilibrio, anche se temporaneo. Leggendo il racconto si ha l’impressione che le avventure di Clarissa – il passaggio cioè tra varie occupazioni – possano proseguire all’infinito, in una condizione di transitorietà perenne. Clarissa, poi, fin dal primo impiego scopre che lavorare spesso significa confrontarsi con le sconfitte, proprie ma anche degli altri: è il grande tema di questa short story, e forse dell’intera raccolta. In un panorama di mortificazione, competizione, imbroglio, il rapporto con l’altro allora appare svilito, anche nei momenti che dovrebbero essere di comunanza: per esempio quando in ospedale la donna riceve continue chiamate di persone che la implorano per un impiego in ospedale, non sapendo che è lei stessa la prima a trovarsi in una situazione analoga.
In questo caos di voci, a mancare è proprio il dialogo. Foster Wallace l’aveva già mostrato chiaramente: a volte non sembra proprio esserci rimedio alla solitudine, e il rapporto con gli altri appare mercificato, relegato a consumo o a prevaricazione. Così è per il protagonista di “Vado a correre ogni giorno”, la cui esistenza diviene un inferno quando al lavoro i suoi colleghi vengono a sapere che è ancora vergine. A quel punto a “salvarlo” sembra essere la corsa; lui però ne fa un’ossessione privata, incondivisibile, piuttosto che una compensazione. La sua è una chiara scelta di solitudine, di distacco dagli altri: confrontarsi col punto di vista “sociopatico” d’altronde è un buon modo per orientarsi tra i racconti di Orozco; da questa particolare visuale, l’intreccio tra mostruosità e quotidianità del mondo del lavoro è lampante. Nel racconto “Il ponte” il protagonista, soprannominato Bimbo, è un imbianchino che, mentre lavora su un ponte, assiste al suicidio di una donna che si getta di sotto. Questa, nella sua caduta, gli passa vicino, praticamente lo sfiora. Sì, è scioccante, gli spiegheranno i colleghi, ma alla fine è una cosa che capita spesso. È una cosa normale. Loro li chiamano i “saltatori”, e ne tengono anche il conto. La sua donna è la 995esima.
Ma allora, verrebbe da chiedersi, questa sfilza di precari, neoassunti, lavoratori alienati e apatici descritti da Orozco, come dovremmo definirli? Sono eroi dei nostri tempi oppure falliti? La loro è sicuramente una vita “eroica”, tra difficoltà varie e ricerca del lavoro o di uno scopo o di un divertimento. Eppure è evidente che il loro eroismo assume sempre i connotati di una paradossale sconfitta. A sorprendere, di questa sconfitta, è però la poeticità, che è sì brutta, guasta, nevrotica, ma comunque autentica. Forse solo abbandonandosi al ritmo esasperante (che poi è un non-ritmo) della vita contemporanea, solo perdendo e accettando di perdere, si può avvistare la parvenza di un senso; questo sembra ammettere Daniel Orozco: il suo è un libro profondamente pessimista, che in fin dei conti non contempla un superamento del fallimento. Eppure uno spiraglio esiste, forse; un senso di “fratellanza interinale” da trovare da qualche parte, anche in luoghi inaspettati. Sul finale di “Racconti interinali”, così Orozco descrive il ritorno a casa di Clarissa Snow, in autobus:
«Sull’autobus si sentiva immersa nel mondo, sentiva la sua pressione e le sue spinte e i suoi urti, il suo peso morto che le scorreva accanto e intorno e addosso. Perché era questo che amava più di ogni altra cosa – il semplice tocco di qualcun altro, casuale e intimo ed essenziale. Perché nessuno è mai solo su un autobus. […] E lei ondeggiava beata addosso ai suoi fratelli pendolari, e chiudeva gli occhi di fronte al lampeggio della luce sulle finestre tutt’intorno».
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