Sulla smarginatura in Elena Ferrante
La tetralogia “L’amica geniale”
di Vincenza Lucà / 31 marzo 2022
Nella tetralogia ferrantiana de L’amica geniale (Edizioni E/O, 2017) l’esperienza della cosiddetta smarginatura vissuta da Lila è una delle cose che più affascina e pone interrogativi. Cos’è la smarginatura? A Lenù Lila dice che durante le occasioni della smarginatura «si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose». Ma cosa significa? Seppure paia talvolta intuibile col pensiero, la smarginatura non è altrettanto facile da afferrare e affermare con le parole. Lasciando da parte ogni pretesa circa la possibilità di comprensione e spiegazione certe di tale episodio, si tenterà qui invece – quasi per gioco – di rintracciare in altre opere letterarie esperienze che si potrebbero confrontare con essa e al contempo di decifrare quella che è la sua natura.
Lila ha il suo primo episodio di smarginatura il 31 dicembre 1958, che viene così descritta: «Questa sensazione si era accompagnata a una nausea forte e lei aveva sentito che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stava spezzando i contorni di persone e cose rivelandosi». Da queste parole si capisce che qualcosa, celato nello stato normale delle cose, si manifesta – qui specificatamente a Lila – rompendo il profilo del mondo: in sintesi, Lila vede la realtà in un’altra luce, prende consapevolezza di un’altra dimensione del reale: è come se vedesse tutto per la prima volta. Una sorta di risveglio della consapevolezza.
Vedere il mondo per quel che è provoca nausea e vertigine: proprio quelle che prova Eugenia, la bambina protagonista del racconto Un paio di occhiali in Il mare non bagna Napoli (Einaudi, 1953; Adelphi, 2014) di Anna Maria Ortese. Eugenia, mezza accecata dalla miopia, grazie a un paio di occhiali, che indossa per la prima volta, vede finalmente Napoli e il mondo. Ma – se leggiamo e interpretiamo il racconto in una chiave allegorica – quello che vede Eugenia non è semplicemente il quartiere di Napoli in cui vive, ma la natura reale del mondo, la cui visione le provoca una «terribile impressione». Così come fu per Lila durante la sua prima smarginatura, quando i suoni risultavano amplificati, tutti si muovevano troppo velocemente ed erano investiti di un senso di repulsione, ribrezzo, nausea, analogamente Eugenia vede le persone cominciare «a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali»: tutto questo provoca alla piccola Eugenia un malessere tale da farla vomitare. Paradossalmente, vedere in maniera così chiara e trasparente provoca quelle reazioni di terrore e spavento che nel senso comune riserviamo invece al buio, all’ignoto. E qualcosa di simile accade anche a Septimus, personaggio che troviamo nel romanzo di Virginia Woolf La signora Dalloway (Mondadori, 1946; qui si fa riferimento all’edizione Einaudi, 2012, trad. di Anna Nadotti). Septimus diviene «atterrito da quel progressivo restringersi di ogni cosa verso un solo centro davanti ai suoi occhi, come se un qualche orrore stesse per affiorare in superficie e divampare. Il mondo vacillava, tremava e minacciava di divampare». C’è l’idea, dunque, che qualcosa di minaccioso si cela dietro la realtà, capace di romperla e stravolgerla, a dispetto del senso che le abbiamo dato e delle leggi di fisica a cui solo – credevamo – potesse ottemperare. E questo destarsi della coscienza accade improvvisamente, può avvenire in qualsiasi momento senza preannunciarsi: mentre si osserva il fluire della gente in una città o anche semplicemente osservando quel volto sconosciuto allo specchio, che altro non è che la nostra stessa persona. E altrettanto furtivamente il momento, così come si era accostato, si ritrae.
Ma non solo il mondo sembra perdere i propri contorni di significato, traspare anche la paura che esso possa vacillare, implodere, strabordare dai confini della consuetudine e sfociare nell’orrore e nello spavento. Nel descrivere il senso dell’assurdo nel Mito di Sisifo (Bompiani, 1947) Albert Camus scrive che «nel fondo di ogni bellezza sta qualche cosa di inumano, ed ecco che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono, nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestivamo, più distanti ormai che un paradiso perduto. […] Per un secondo non lo comprendiamo più, e perché per secoli non avevamo capito in esso che le figure e i disegni che gli avevamo antecedentemente attribuiti, e perché ormai ci mancano le forze per servirci di tale artificio. Il mondo ci sfugge, poiché ritorna se stesso». Quello che è l’assurdo per Camus ricalca in tanti aspetti la smarginatura dell’opera di Ferrante: entrambi sono legati a un senso di profonda consapevolezza e a una sensazione di estraneità e nausea – derivate dall’attenta osservazione e constatazione che tutto ciò (inclusi noi stessi), che pure un momento prima sembrava familiare, adesso appare stupido e fa ribrezzo; entrambi accadono quando l’inebetimento dell’abitudine si inceppa e «l’indentatura delle cose» salta.
Infatti, è come se ci fosse un’impalcatura, più o meno solida, che sostiene la facciata illusoria del mondo e delle cose, senza la quale sprofonderemmo in un abisso di orrore, che altro non è che vuoto. Si potrebbe dire, a questo punto, che la smarginatura è un particolare stato dell’essere che consente a Lila di vedere il mondo come effettivamente è – senza quel velo di cipria che rende l’esistenza illusoriamente più sopportabile –, ossia terrificante: «le era accaduto per la prima volta di avvertire entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa». Potrebbe essere il velo di Maya squarciato. Quasi sicuramente è un momento transitorio e destabilizzante di visione («devo afferrare la scia che mi sta attraversando, devo gettarla via da me») di assoluta chiarezza su cosa e come sono veramente le cose e la loro assurdità: «Fu – mi disse – come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia insensata». L’horror vacui sembra dunque essere ciò che ci provoca orrore ed è causa del nostro spavento quando capita che la fragile protezione dell’abitudine viene meno: «Come una nuvola copre il sole, cosí il silenzio cala su Londra, e sulla mente. Il tempo penzola sull’albero maestro. Ogni sforzo cessa. Lí ci fermiamo, lí restiamo. Rigido, lo scheletro dell’abitudine soltanto sorregge l’impalcatura umana. Dove non c’è nulla […]», scrive Woolf.
A osservare i margini del mondo cedere e a vedere le cose sformarsi si rischia di frammentare sé stessi, non riuscire più a conservare la propria apparenza, dissolversi fino a scomparire: «[…] nessuna forma avrebbe mai potuto contenere Lila e […] presto o tardi avrebbe spaccato tutto un’altra volta». Bisogna cercare di arginare questi momenti di terrore, tenere a bada il vuoto e sostenere il fragile velo dell’apparenza delle cose. E allora ecco che forse è per qualcosa del genere che riecheggia – sempre, ancora una volta, a Napoli – quel «Non ti disunire» di È stata la mano di Dio (2021). Lila trascorre tutta la sua vita cercando di proteggersi dall’orrore, ma non ne è capace, «Lila perdeva Lila, il caos pareva l’unica verità, e lei […] si cancellava atterrita, diventava niente». Lila è fin troppo consapevole del disfacimento e dell’orrore che si cela dietro la consuetudine o, addirittura, la bellezza. E lo si capisce quando osservando, insieme a Lenù e altri due giovani, il cielo stellato sopra Ischia, non riesce a partecipare insieme agli altri all’ammirato stupore in lode «dell’architettura portentosa del cielo»: in esso Lila non vede bellezza e ordine, ma solo «cocci di vetro a vanvera dentro un bitume blu» oltre il quale c’è lo spavento. Eppure, questi momenti di chiarezza e di spavento, che manifestano il vuoto, allo stesso tempo potrebbero essere dei «fiori di tenebra» e altresì – oltre all’orrore – rivelare bellezza, se solo si fosse capaci a cedere all’inganno e lasciarsi cullare dal piacere vano delle illusioni.
Nel quarto libro della tetralogia, la descrizione dell’episodio di smarginatura avvenuto durante il terremoto del 1980 è quanto di più chiaro e intuibile la scrittura di Ferrante ci abbia donato riguardo questa particolare esperienza: «[…] i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così – non era assolutamente così –, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. […] Borbottò che non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano, e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea, senza riuscire più a dare contorni nitidi alle sensazioni». Come una fragile crosta sulla ferita che è causa del malessere dell’essere umano e che potrebbe improvvisamente frantumarsi e rivelare l’orrore del sangue che erompe, la vita consuetudinaria che scorre quasi impercettibilmente lungo il fiume dei giorni non è altro che un trucco che si adotta rispetto a quell’altra vita eccezionale e terrificante dove si assiste all’esistenza con assolute – o quasi – chiarezza e consapevolezza: un trucco nel senso che addomestichiamo l’assurdo, impariamo a convivere con la vertigine provocata dall’horror vacui che incombe costantemente: «il terrore resta, se ne sta sempre nello spiraglio tra una cosa normale e l’altra». Quale delle due dimensioni della vita sia la più autentica – se quella che scorre inconsapevole di sé o quella che nell’attimo si rivela a sé –, poi, non ci è dato saperlo.
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