Il sogno (italo)americano secondo Di Donato
“Cristo fra i muratori” di Pietro Di Donato
di Alberto Paolo Palumbo / 6 aprile 2022
Quando si parla di cultura italoamericana si cade facilmente in pregiudizi e stereotipi. L’italoamericano viene ritratto di solito come persona di origini meridionali, la sua attività principale è il ristoratore, l’imprenditore edile o il proprietario di negozi di alimentari, e, se consideriamo i film di Martin Scorsese, i romanzi di Mario Puzo, e serie tv come I Soprano, viene raffigurato spesso come un malavitoso.
Quanto alla letteratura italoamericana, resta ancora un territorio inesplorato. Si hanno in mente solamente due autori: John Fante e Salvatore Scibona, che propongono però una narrativa italoamericana di una generazione ormai statunitense a tutti gli effetti: Fante con il suo alter ego Arturo Bandini racconta un personaggio che ormai si sente americano, si comporta come tale e prova vergogna per le sue origini. Scibona d’altro canto, sebbene abbia scritto solo due romanzi, con Il volontario (66thand2nd, 2019) ha definitivamente abbandonato i temi italoamericani del suo precedente lavoro La fine per porsi come scrittore statunitense a tutti gli effetti e confrontarsi con la Guerra del Vietnam, la mascolinità tossica e il potere: temi legati alla retorica della “pastorale americana” di rothiana memoria, che vede gli States come esempio di benessere sociale ed economico e come prima potenza mondiale, luogo dove gli uomini devono eccellere in qualsiasi attività.
Recentemente, però, è tornato nelle librerie italiane Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato (readerforblind, 2022), autore nato a West Hoboken, in New Jersey, nel 1911, da genitori originari di Vasto e Taranta Peligna, in Abruzzo. Inizialmente pensato come racconto per Esquire e poi pubblicato come romanzo nel 1939 – anno di opere come Furore di John Steinbeck e Finnegans Wake di James Joyce –, il romanzo d’esordio di Di Donato può essere considerato il primo testo che, lontano da ogni genere di stereotipo, ha cercato di tracciare un riquadro fedele della vita degli italiani in America, aprendo la strada alla letteratura italoamericana, in particolar modo a quella della prima generazione di emigrati.
Il protagonista di Cristo fra i muratori è Paul, primo di otto fratelli nati da genitori di origine abruzzese, Geremio e Annunziata. Lui è un capomastro col sogno di avere una casa più grande per la sua numerosa famiglia; durante il giorno di venerdì santo, però, Geremio resta vittima di un incidente sul lavoro: a prendere il suo posto sarà il protagonista, che scoprirà a sue spese che l’America – «quella specie di Terzo Reich dei buoni e dei giusti», come la definisce Sandro Bonvissuto nella prefazione alla nuova edizione – è un posto che «ti divora fino a sputare le tue ossa al camposanto».
Cristo fra i muratori parte dalle vicende personali dell’autore. I genitori di Paul, infatti, si chiamano Geremio e Annunziata come i suoi, e come il protagonista anche Di Donato era il primo di otto fratelli e aveva abbandonato gli studi per lavorare in cantiere alla morte del padre, avvenuta durante il venerdì santo del 1923 per il crollo di un edificio. Si può supporre, quindi, che le vicende narrate partano dal 1923 per concludersi verso gli anni Trenta con la Grande depressione e la morte di Annunziata, nel 1932, per un cancro. L’evidente autobiografismo dell’opera si manifesta anche nel momento in cui uno dei personaggi dice al protagonista: «“Paul, Paul! Ah, Pietro e Paolo, eh…”», una frase che sembra tradire l’ispirazione personale del libro.
Il romanzo di Di Donato, però, rimodella la vita del suo autore per trattare aspetti più universali. In questo senso sarebbe meglio parlare di Christ in concrete, «Cristo in concreto», poiché il titolo originale del romanzo dà l’idea di un Cristo che appartiene a tutti, non soltanto ai muratori. Questo aspetto viene messo in luce anche da Bonvissuto nella già menzionata prefazione:
«La sua ontologia [di Di Donato] non è per la morte ma dalla morte, non ha questa come prospettiva ma come origine. O almeno anche come origine. E non è una morte personale, ma sociale, una cosa soprattutto altrui, una morte che non è una possibilità domiciliata nel futuro che condiziona il presente, ma un fatto storico del presente che incombe sul nostro futuro».
Sempre Bonvissuto evidenzia l’uso di una mitizzazione cristiana della storia di Paul per raccontare la realtà del lavoro e della miseria della comunità italoamericana descritta da Di Donato:
«Di Donato ha scoperto che il lavoro salariato, nelle moderne democrazie capitaliste, è la morte inclusa già nella vita, è accettare che la morte viva qui con noi ogni giorno invece che una volta sola in ogni esistenza. Lavorando su un cornicione, su un ponteggio nel vuoto, su una trave di ferro nel cielo di New York accetti di morire un po’ ogni giorno. Te o qualcun altro come te. Nessun figlio nato in campagna in una società preindustriale salirebbe su un traliccio che sta a trecento metri da terra per niente. Ma il capitalismo ti chiede di accettare di morire in un altro momento rispetto a quello che era stato originariamente previsto per te, ed è il momento deciso da un altro dio, falso e bugiardo: il denaro. E in un mondo dove dio è fasullo, agli uomini non resta che Cristo».
Di Donato, dunque, ci racconta la condizione dei lavoratori italoamericani in termini di martirio, fatalismo e cristianità. Questo modo di narrare il capitalismo e le sue conseguenze è già stato usato, ad esempio, da Bertolt Brecht nella Santa Giovanna dei macelli (1932), in cui la figura di Giovanna D’Arco – nel dramma brechtiano Giovanna Dark – viene trasposta ai tempi del Giovedì nero, dimostrando come il potere del denaro sia di natura ambiguo e, invece di promettere benessere, porti solo miseria fra i lavoratori. Di Donato già dall’inizio ci parla di “Lavoro” e “Edificio”, parole scritte con la lettera maiuscola, a dare l’idea di divinità fredde e distanti, indifferenti al destino dei lavoratori. «Il Lavoro», scrive l’autore, è una «bestia fredda e orribile», che «se ne stava lì immobile, in attesa fra le ombre pungenti del crepuscolo, avvolto dall’inquietante vento di marzo».
Il Lavoro viene descritto come una divinità capricciosa, che dispone a suo piacimento del destino degli uomini, ignorandone ogni preghiera, privando loro di ogni prospettiva di miglioramento della propria condizione:
«Ma oggi no, oggi il Lavoro lo aveva soffocato, ma gli aveva permesso di vivere. Domani, sarebbe morto. Sarebbe morto senza avere il tempo di alzare la testa e gridare la propria sfida, se ne sarebbe andato con le dita rigide e distese e la bocca spalancata che mostrava le gengive…»
Per Paul Dio si identifica con il Lavoro, e allo stesso tempo con un’intera società americana indifferente al suo dolore e a quello di sua madre: s’identifica con il signor Murdin, il datore di lavoro di Geremio, con la polizia, con i giudici che negano alla famiglia di Paul il risarcimento, e con i loro «sorrisi che profumano di dentifricio rinfrescante e denti curati. Sorrisi che li facevano sentire fuori dalla grazia di Dio», che li portano a vergognarsi delle loro umili origini. Il protagonista arriva a negare la bontà e l’esistenza di Dio, e giunge alla conclusione che l’America sia «una terra di contraddizioni», un paese che «fa vomitare veleno» a chi vi arriva in cerca di una nuova vita.
Paul trova una salvezza nella comunione con gli altri, che «sono come lui figli di Cristo»: i muratori Nasone, Nicola detto Lucia, Bucciadarancia, Quattrocchi e Black Mike, la sua famiglia, Zi’ Luigi e le donne del vicinato come Grazia, Katarina e Cola sono tutti parte di un’umanità dalle «radici strappate, gli steli piegati e distrutti», costretta ad accettare la miseria in cui vive e l’indifferenza a cui è condannata, ma che trova sollievo nel cercare di preservare le usanze e i riti delle origini. Il parto dei bambini in casa, le feste di matrimonio con i prodotti tipici italiani e i lavoratori che si aiutano tra loro sono immagini di una comunità che cerca, attraverso la condivisione, una consolazione al male che le infligge la società.
Cristo fra i muratori ritrae un vero spaccato della comunità italoamericana: non una realtà di gangster o ristoratori imprenditori, ma di gente umile, di origine contadina, che con sacrificio ha cercato di garantire un futuro onesto alle proprie famiglie. Di Donato riesce soprattutto a smascherare il vero volto del sogno americano. L’autore ne svela, infatti, la falsità della retorica di benessere, che non procura altro che miseria e indifferenza per gli emigrati italiani. Per l’America questi sono soltanto carne da macello, «Cristi nel cemento» dimenticati che hanno alimentato i sogni di profitto di pochi sacrificando ogni cosa, tranne il senso di comunità e di appartenenza, unica salvezza contro la spersonalizzazione e la disumanizzazione del lavoro e del denaro.
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