La Loulou di Margaret Atwood
Prigionia di una musa di carta
di Elisa Bisson / 28 aprile 2022
Poetessa, scrittrice, attivista e fine osservatrice, Margaret Atwood famosa per il suo Racconto dell’ancella (Ponte alle Grazie, 2017) portato alla ribalta dall’omonima serie tv Hulu (IMDb, 2017) brilla come autrice di perle come l’antologia L’uovo di Barbablù (Racconti, 2020). Qui voci femminili si succedono in racconti autodiegetici e non, del proprio sofferto vissuto, di esperienze d’infanzia e taciti drammi della maturità. Ciò che stupisce maggiormente scorrendo i racconti non è unicamente l’attualità dei temi in un romanzo corale del 1983 (modernità cui Atwood ci ha abituati, in ogni sua riga) ma la coerenza con cui l’autrice sembra mettere liricamente in scena i meccanismi e le osservazioni delle moderne teorie letterarie e di genere ancora oggetto di studi.
In questa ottica è di certo Loulou il racconto che meglio sembra riproporre un dipinto narrativo delle teorie di Gayatri Chakravorty Spivak e Beatrice Seligardi. La prima, filosofa e esponente illustre dei postcolonial studies, analizza come la figura femminile risulti subalterna nell’affermazione della propria identità, definita dall’esterno, spesso da un pubblico maschile, e viva come simbolo svuotato di significato, cui l’artista si serve per rappresentare più lo slancio poetico e parziale della musa che per immortalare la donna che ha dinnanzi (Turia, 2018).
Ed è proprio questo il quadro che Atwood ci mostra nel racconto: Loulou è un’artigiana dalla corporatura robusta e il pensiero quadrato che condivide la casa con un gruppo di poeti che, infestando il suo soggiorno con la confidenza di vecchi amanti, la vezzeggiano e la provocano, coinvolgendola e escludendola allo stesso tempo. Nonostante l’apparente bonarietà del gruppo di intellettuali nei confronti della protagonista, l’autrice nel corso del racconto alimenta il dubbio che questo rapporto di amore e odio, di affetto e amarezza celi in realtà il sopito rancore di Loulou che si sente derisa, inquadrata e persino dissanguata dai poeti che ospita a cena ogni sera. Viene così delineandosi un rapporto parassitario dove l’uomo-artista se da un lato dedica versi d’amore elegiaco alla donna-musa dai capelli neri e i fianchi robusti, dall’altro considera quella creatura semplice, dritta, poco istruita e dalle sembianze poco armoniose.
Un appiattimento consapevole delle proprie capacità e della propria psicologia che con il tempo Loulou ha attuato, arrivando a identificarsi per prima in quell’immagine che i poeti vedono in lei: non si autodetermina ma finisce appunto per essere subalterna all’opinione maschile, si adegua al ruolo di musa vuota e svuotata, assecondando, forse in parte compiacendosene, le modeste aspettative di buona borghese sempliciotta riposte in lei. L’omologazione a questa recita si esplica perfettamente nel nome della protagonista, a lei conferito dagli uomini-artisti che trovano divertente nel vezzeggiativo Loulou l’ossimoro con la sua fisicità robusta: in questo modo il nome scelto dalla cerchia maschile determina il soggetto femminile, lo intrappola e lo inquadra, finisce per oscurare l’identità della donna e diventa titolo dell’intero racconto.
A questo meccanismo lucidamente esplicato da Spivak e scientemente messo in atto da Atwood succede un atteggiamento di Loulou che ben si uniforma alle osservazioni di Seligardi: il silenzio. Nel racconto torna preponderante la dicotomia tra il chiasso prodotto dagli uomini, sempre intenti a discutere di donne e di letteratura, di poetica e massimi sistemi e il silenzio della protagonista che si limita ad ascoltare mentre compie i meccanici gesti che tutti si aspettano che compia. L’aria taciturna di Loulou è da imputarsi in primo luogo alla sua convinzione fallace di non essere in grado neanche di interessarsi degli argomenti trattati a cena che non le competono in quanto creatura semplice e “tutta d’un pezzo”, in secondo luogo sembra calzare a pennello la tesi di Seligardi (Morellini, 2018) per cui la donna-musa finisce per rinchiudersi nel suo silenzio per impedire all’uomo di sondare quel mondo interiore che gli è precluso e di cui è all’oscuro.
Questo meccanismo di difesa sembra in effetti essere messo in atto da Loulou nel momento in cui uno dei poeti la incalza per farle spiegare, invano, il significato di una parola particolarmente ricercata. All’aperta provocazione la donna, improvvisamente resa partecipe della conversazione come oggetto di ludibrio, preferisce rispondere con qualche imprecazione per poi barricarsi nuovamente nel proprio silenzio, che la tiene al riparo dallo scherno e scherma i suoi reali pensieri. E come nell’arte visiva i pittori, scultori e fotografi tendono a rendere un’immagine dormiente delle proprie muse, con gli occhi chiusi a sbarrar loro la strada, così i poeti del racconto fanno di quel silenzio un tratto caratteristico del carattere ruvido di Loulou, per spiegarsi qualcosa che non sono in grado di conoscere.
Senza identità e circondata da una patina nebbiosa, risulta ostico persino al lettore permeare questo personaggio, tanto è radicale il suo silenzio. Eppure l’autrice risulta in grado in parte di risollevare le sorti di Loulou dandole voce con la propria prosa, invertendo quel processo artistico-svilente che viene invece avviato dai poeti.
Loulou avvia nel corso della narrazione un processo di intima deglaciazione, attraverso un atto segreto e liberatorio: un breve incontro del tutto innocente col commercialista si trasforma in un gioco di seduzione dove Loulou riesce a riguadagnare, grazie a questo scambio imprevisto e insospettabile, la propria individualità che spezza la monotonia e la emancipa dall’immagine che i poeti hanno di lei. Da donna di carta torna ad essere donna in carne ed ossa in grado di sedurre un uomo e vivere a pieno la propria sessualità. Ed è proprio attraverso questa fugace trasgressione che Loulou riacquista la tridimensionalità della propria psiche e la consapevolezza di poter scegliere e vivere fuori dal copione affidatole.
Saremmo dunque indotti a sperare in un superamento della sua condizione di subalterna, ma in questo caso Atwood dimostra a quali vertici desolanti e amari giunge la sua parabola: sebbene a causa del suo fugace incontro sessuale con il commercialista arrivi in ritardo per la cena spezzando la preziosa routine dei suoi ospiti fissi, il finale del racconto lascia presagire l’ormai totale sottomissione della donna alle dinamiche maschili dalle quali, in fondo, si sente lusingata. Quasi cullata dalle attenzioni che suo malgrado quegli uomini le rivolgono, la protagonista non sembra trovare il vigore necessario all’emancipazione definitiva, intorpidita in quel ruolo musivo tutto sommato rassicurante. Nonostante vibri per la sua esperienza segreta che ha alimentato in lei quel mondo interiore di cui parla Seligardi, sempre più contratta soffoca quella timida scintilla, la custodisce gelosamente al punto da lasciare che non divampi mai del tutto. Per questo motivo Loulou rimane una musa bidimensionale e donna sconfitta, capace tutt’al più di piccole trasgressioni come arrivare tardi per la cena e costringere i poeti a ordinare una pizza.
La certezza che niente potrà davvero cambiare in quella soffocante dinamica è forse la vera spinta propulsiva della narrativa di Atwood, coronata dal senso di sospensione con cui chiude la vicenda di Loulou che suo malgrado resta lucida prigioniera, accontentandosi di qualche fugace evasione. Ma è forse la decadenza di questa eroina, incarnazione delle teorie di Spivak e Seligardi, a rendere Loulou un manifesto generazionale e ontologico della condizione femminile fuori e dentro l’arte: così questa riflessione metapoetica nasce dalla penna di una delle autrici più ispirate e ispiranti della contemporaneità, Margaret Atwood, che a Loulou, anche se solo per qualche pagina, presta la propria voce.
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