Arsenij Tarkovskij, «perché fermare il tempo?»
Uno dei poeti più rappresentativi della sua generazione
di Lorenzo Gafforini / 24 maggio 2022
Discorrendo su Tarkovskij il pensiero dell’interlocutore finisce per rivolgersi ad Andrej, sicuramente uno dei cineasti più influenti del secolo scorso. Capolavori come Andrej Rublëv, Solaris e Stalker hanno fatto la storia della settima arte, divenendo delle opere imprescindibili per chiunque voglia approfondirla. Almeno in Italia, Andrej Tarkovskij si impone all’attenzione della critica e del pubblico con il suo primo lungometraggio – L’infanzia di Ivan –, vincitore del Leone d’oro al Festival di Venezia. Nonostante in tutti i suoi film vi siano riferimenti autobiografici più o meno espliciti, la pellicola più intima del regista rimane Lo specchio. Opera del 1975, il film racconta la crescita dell’autore partendo dall’infanzia. In particolare, viene analizzato il rapporto con le figure genitoriali. Il legame indissolubile con la madre si pone in netto contrasto con l’assenza e le incomprensioni paterne. Un rapporto complesso, dunque, quello fra padre e figlio che, tuttavia, trova un proprio punto di incontro nell’arte. Infatti, il padre di Andrej è Arsenij Tarkovskij, uno dei poeti più rappresentativi della sua generazione.
«I primi incontri»
Nonostante il successo riscosso in patria – principalmente in epoca post-staliniana –, l’opera di Arsenij fatica a imporsi oltre i confini dell’Unione sovietica. I film del figlio, comunque, contribuiscono alla sua conoscenza e riscoperta. Opera fondamentale a riguardo è, appunto, Lo specchio; lo stesso, infatti, si apre proprio con dei suoi versi particolarmente evocativi. Tratti da I primi incontri la frase in esergo recita: «scendevi come una vertigine / saltando gli scalini, e mi conducevi / oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti / al di là dello specchio». Una poesia d’amore capace di alimentare la fantasia del lettore sia con impressioni liriche sia con oggetti concreti nella loro quotidianità. Il poeta ripercorre con il pensiero, appunto, i primi incontri con la moglie Marija Višnjakova, madre di Andrej. Un paesaggio idilliaco caratterizzato da immagini caratteristiche viene posto in contrasto con l’arredamento povero di una casa umile. Il pensiero, dunque, si leva al di là del reale e supera metaforicamente lo “specchio” per immergersi in un mondo alternativo: la visione degli amanti. Tuttavia, il senso di scissione e l’incertezza del futuro si riconfermano nel distico in chiusura: «Quando il destino ci seguiva passo a passo, / come un pazzo col rasoio in mano».
Tarkovskij e l’editoria italiana
Arsenij Tarkovskij deceduto nel 1989 ha visto in Italia solo poche pubblicazioni. Eccetto qualche occasionale uscita dei suoi versi, la prima pubblicazione organica della sua opera viene compiuta dall’editore Scheiwiller, pubblicando appena dopo la sua morte un volume di poesie scelte. Quattro anni dopo, sempre per Scheiwiller, è la volta di Costantinopoli. Prose varie e lettere. Corredato da un ricco apparato critico-filologico, l’opera in due volumi viene ripresa da Giometti&Antonello nel 2017, riproponendola in un solo volume decisamente più agile – ma comunque caratterizzato da una completezza e cura rari. Sempre per la traduzione di Gario Zappi, il libro così proposto è impreziosito da un’esaustiva nota biografica aggiornata da Maria Tarkovskaja, figlia del poeta. Stelle tardive – ecco il nome del volume – è un compendio per comprendere la poetica di Arsenij Tarkovskij, non solo tramite i componimenti ma anche attraverso prose selezionate. Tra quest’ultime emerge Costantinopoli, dieci racconti semi-autobiografici che l’autore pubblica per varie riviste a partire dal 1987. Di recente uscita, sempre per Giometti&Antonello, è anche il secondo volume di Stelle tardive, contenente poesie disperse e immagini inedite.
Gli inizi da traduttore
Come anticipato, il successo di Tarkovskij ha tardato – e tarda tutt’ora – ad arrivare in Occidente. Se si pensa a nomi come Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Osip Mandel’štam e Vladislav Chodasevič, Tarkovskij rimane un autore semisconosciuto. Tuttavia, già la censura staliniana ne aveva percepito il valore in un documento in cui viene riportato: «Poeta di grande talento, Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa cui appartengono anche Achmatova, Gumilëv, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». A differenza di Chodasevič prima e di Iosif Brodskij poi, Tarkovskij non decide per l’esilio – lo stesso che il figlio narrerà in maniera magistrale in Nostalghia. Tarkovskij, infatti, rimane in URSS dedicandosi alle traduzioni di poesie e canti epici delle singole tradizioni nazionali dell’Unione. Parallelamente alla sua attività poetica personale osteggiata dal regime, Tarkovskij traduce capolavori dal turkmeno, karakalpako, armeno e georgiano. I continui viaggi gli permettono – per usare un’espressione di Manderl’štam – di «rovistare nell’anima» di poetiche variegate, ma anche e soprattutto di conoscere gli autori più rappresentativi dell’epoca. D’altronde fin dall’infanzia Tarkovskij frequenta una serie di circoli culturali di cui il padre Aleksandr faceva parte. Da lui eredita la passione per le lingue, ma anche un forte spirito politico. Già adolescente viene incarcerato per le proprie posizioni e fugge in cerca di riparo. Nel frattempo, scrive e riesce a recarsi a Leningrado per far leggere i propri componimenti al poeta simbolista Fëdor Sologub che non tarderà ad affermare: «Sono poesie molto brutte, giovanotto, ma non perdete la speranza, scrivete, e forse qualcosa vi riuscirà». Negli anni successivi approfondisce l’ambito letterario, collaborando con una serie di riviste. Intanto comincia a collezionare volumi antichi; migliaia di libri che, purtroppo, andranno perduti durante il secondo conflitto mondiale. Nonostante il prolifico lavoro di traduttore e la nascita di Andrej nel 1932, il rapporto con la moglie naufraga nel 1936 quando Tarkovskij decide di trasferirsi da Antonina Bochonova. Da qui il rapporto con il figlio andrà inevitabilmente a incrinarsi, legando ancora di più Andrej alla madre; queste esperienze, come anticipato, saranno il materiale principe per Lo specchio.
Il rapporto con i contemporanei
Durante la Seconda Guerra Mondiale diviene scrittore del giornale militare e, oltre a essere corrispondente di guerra, comincia a scrivere poesie per il coro dell’Armata rossa. Sono gli anni del suo incontro con Maria Cvetaeva, con la quale instaura un rapporto complesso e contradditorio. Nonostante l’affinità culturale, la Cvataeva è molto turbata e nervosa, condizionando negativamente la gente intorno a lei. Nulla vieta a Tarkovskij di dedicarle alcune poesie, fra cui la commovente Elabuga – scritta in occasione del suo suicidio: «Di quale cigno hai udito il canto prima dell’alba? / Hai udito l’ultima voce di Marina. // Ora, maledetta – com’è che non piangi? – / dovrai brillare come oro: nascondi Marina!». La morte della Cvataeva condizionerà l’immaginario dei poeti successivi – come, d’altronde, lo era stato quella di Majakovskij. Lo stesso Evtušenko, anni dopo, infatti, scriverà Il chiodo di Elabuga: «A Dio chiedeva, implorante, ferita, / che le dessero panni da lavare. / Vorrei restare un poco / dove ha vissuto lei, Marina Ivànovna». Finita la guerra, incontra Anna Achmatova a cui dedicherà alcuni versi stupendi; in particolare un sonetto in cui si legge: «Se mi fosse scritto nel destino / di giacere nella culla degli dèi …». A differenza della Cvetaeva, con l’Achmatova Tarkovskij matura un’intesa che andrà a consolidarsi negli anni. Nelle sue prose Tarkovskij ricorda un aneddoto a riguardo: «In Achmatova vi è una tale perfezione della forma! Una volta mi fece vedere un suo brano in prosa. A me non piacque, glielo dissi, e me ne andai. A casa raccontai l’accaduto a mia moglie che disse: “Compra dei fiori e vai immediatamente da Anna Andreevna a scusarti”. Ma io non ci andai. Dopo una settimana squilla il telefono. “Salve. Sono l’Achmatova. Sapete, ho pensato: siamo rimasti così in pochi: ci dobbiamo amare e lodare l’uno l’altro».
«La poesia è dovunque, dov’è il poeta c’è vita»
A differenza dei suoi contemporanei, Tarkovskij nelle proprie poesie raramente parla di tematiche politiche e sociali; inevitabilmente, in alcune sue composizioni, emerge una certa posizione morale, ma raramente in maniera esplicita. La sua ininterrotta indagine interiore lo porta a ripercorrere la propria infanzia, le proprie emozioni, così da esplorare e disvelare gradualmente il proprio microcosmo. Tarkovskij si eleva divenendo il cantore di una natura che è in continuo dialogo con l’anima. Nel poeta non vi è misticismo, ma la sua poesia è comunque intrisa di spiritualità, quasi panteistica: «Non c’è libertà nella natura, / ne è svanita la tentazione, / non occorre la libertà / turbare il bosco novembrino. // Nell’obbrobrio della morte i tremoli / si sono irrigiditi sul proprio fogliame / con le gambe all’insù / e il capo in terra». In Tarkovskij vi è questa fede incrollabile per il gesto poetico, tanto che considererà la sua stessa attività in prosa secondaria. In un passaggio precisa: «La poesia è dovunque, dov’è il poeta c’è la vita. La poesia gode degli elementi di tutte le arti compreso il balletto ed il circo, in quanto essa opera per mezzo di rappresentazioni […], di ritmo, colore, suono, temporalità». Proprio questa sua concezione – a tratti radicale – lo porterà a incrinare i suoi rapporti con Pasternak, dopo aver letto Il Dottor Zivago. Infatti, mentre Tarkovskij continua a stimare e apprezzare profondamente l’opera in versi dell’amico a confronto della prosa, Pasternak risponde come in realtà la poesia fosse, in fondo, una sciocchezza, futile rispetto all’indispensabilità della prosa.
L’atto creativo
Ancora inedito come poeta, l’opera di traduzione vale a Tarkovskij un maggiore riconoscimento nell’Unione degli scrittori. Il suo inesorabile successo come intellettuale, però non evita la separazione con la Bochonova e l’inizio di una nuova relazione sentimentale. Solo nel 1962 – l’anno de L’infanzia di Ivan – Tarkovskij riesce a pubblicare il suo primo libro di poesie: Prima della Neve. Negli anni successivi, fino alla sua morte, continua a pubblicare libri in decine di migliaia di copie. Arsenij Tarkovskij muore nel 1989, tre anni dopo il figlio Andrej. Oggi possiamo affermare come la riscoperta di autori come Tarkovskij risulti indispensabile non solo per capire un’epoca, ma anche una tradizione letteraria. Un autore, a tratti, apparentemente fuori dal tempo, capace tuttavia di coglierne l’essenziale per poi riadattarlo alle sue esigenze. Per riprendere una frase del figlio, anche il padre è capace di “scolpire il tempo” e «stud[iare] su un libro di pietra il linguaggio dell’eterno». Tarkovskij contempla la vita negando la morte in ogni suo verso. Poesia come atto di ribellione verso l’ineluttabilità della vita. L’estremo tentativo di fermare e incasellare il tempo. Lo stesso Andrej – condizionato dalla visione del padre – scrive nei suoi diari: «L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità».
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