Gli Everything Everything sono un grande gruppo
Il nuovo album della band di Manchester
di Luigi Ippoliti / 31 maggio 2022
Credo che gli Everything Everything siano, se non il più grande in assoluto, sicuramente uno dei più grandi gruppi alternativi sottovalutati degli anni ’10. In pochissimi sono riusciti ad arrivare a certi picchi di creatività negli ultimi tempi e ad avere, in proporzione, così poco seguito.
Sottovalutati, sì, perché se si riflette sull’eco generata all’epoca dai Foals, o in un altro campo gli Alt-J, è incomprensibile come sia stato possibile che i quattro di Manchester siano passati così sotto traccia (se non in alcune micro bolle). Siamo sicuri, quindi, di aver capito la portata di un pezzo come “MY KZ, UR BF“?
Chissà, magari avrà influito all’epoca il 3.8 dato da Pitchfork a Man Alive (ancora oggi rimane uno dei grandi misteri partoriti dalla testata americana, ma poi c’è il 4.8 dato a An Awsome Wave e quindi le cose sono ovviamente più complesse di così) a dispetto ad esempio del 7.6 dato a Total Life Forever dei Foals: sappiamo quanto quella rivista (La rivista) possa manipolare e indirizzare il discorso.
Ma gli Everything Everything, dagli esordi, partendo dallo splendido Man Alive, hanno sempre dimostrato di essere un gruppo iper versatile, fantasioso, in grado di costruire melodie e architetture peculiari, nuove. Hanno sempre dato l’impressione di avere la necessità di dover raccontare qualcosa, che fosse da un punto musicale o testuale. Cosa che nei Foals invece non usciva: quantomeno non in maniera così palese.
A parte questo: dentro gli Everything Everything ci sono i Battles, i Don Caballero, sfumature dei Fuck Bottons, ma anche le sensibilità Radiohead o Coldplay–Muse (quelli dei bei tempi, sì); l’art rock che si mischia con il math rock e il pop alternativo e all’hip hop; il rapporto tra umanità e robotica e la voce che va su e giù, questo falsetto che precipita verso il basso da un momento all’altro e non ti dà mai appigli: lo segui, ti fidi. Sorretto dalla sezione ritmica ossessiva che martella sempre con grande equilibrio.
Raw Data Feel è esteticamente diverso dal passato. “Teletype“, la traccia d’apertura, ti prepara a quello che succederà. Si coglie immediatamente l’elettronica e, allo stesso tempo, una vocazione mainstream. Paradossalmente, per questo motivo, sarebbe stato facile bollare quest’album come lavoro facile. Poco interessante, con poche sfumature. In fondo sono passati solo due anni da Re Animator. Avrebbero potuto aspettare, no?
I primi ascolti ti depistano, un’eccessiva ballabilità iniziale e in più complice forse una quarta traccia come “Pizza Boy” – che non rispecchia fedelmente i crismi dei quattro (ma di scivoloni del genere ce ne sono anche in passato, tipo “Spring/Summer/Winter/Dread“) – descrivono qualcosa che in realtà non è.
Perché l’album prende una direzione diversa e una forma. L’incipit stesso assume un altro significato. A un certo punto vieni spiazzato da un pezzo con questi synth anni ’80 frullati da Moroder come “Shark Week” e ti chiedi cosa stia succedendo, per poi passare a una roba cyborg come “Cut UP” e subito dopo trasportato in un simil Monkeytown dei Modeselektor in “HEX” che sfuma nelle coccole di una ballata quasi country dal nome “Kevin’s car“. A questi episodi si fondono canzoni come “Leviathan” e “Jennifer“, che rappresentano in maniera netta l’autoconservazione e sarebbero potuti stare in Arc senza problemi.
I nuovi album degli Everything Everything sono la conferma che gli Everything Everything sono un grande gruppo: Raw Data Feel non raggiunge certi apici del passato, ma ci racconta un gruppo sempre capace di ripensarsi e reinventarsi.
LA CRITICA
A due anni da Re-Animator, gli Everything Evrything tornano con un ottimo album che ci conferma il loro enorme talento: perché sono rimasti sempre un po’ nell’ombra?
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