Tarchetti, un’eziologia del malessere
Clara, Fosca: ipostasi dell’anima e «cieca fatalità»
di Davide Rubinetti / 9 giugno 2022
Più che un romanzo di memorie Fosca, capolavoro letterario di Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869) e uno dei romanzi simbolo della Scapigliatura, è un esercizio di anamnesi medica: confidando nelle facoltà terapeutiche della scrittura, il protagonista Giorgio – ormai malato di un male inesorabile che ne rode i nervi e la psiche – decide di ripercorrere per un’ultima volta la farragine confusa di ricordi in cui si annidano le cause della sua infermità. Il “quadro clinico” che ne affiora è quello di un animo dilaniato e insoddisfatto, oppresso dalla convenzione e dalla morale ma incapace di vivere al di fuori di esse; dilaniato, insomma, da due forze opposte, che nel romanzo si incarnano nelle due donne con cui Giorgio intrattiene rapporti più o meno apertamente amorosi, sempre al limite della morbosità: Clara e Fosca.
La rincorsa dirotta di una “eziologia del malessere” trascende il racconto della storia d’amore fatale alla base del romanzo (tratta dall’esperienza autobiografica dell’autore), trasfigurandola in un’allegoria da potersi leggere sul piano esistenziale; d’altra parte, il sapiente sfruttamento degli strumenti ermeneutici del naturalismo e del simbolismo d’oltralpe – branditi con vis reazionaria contro le derive più sentimentalistiche del romanticismo nostrano – permette all’autore di approdare ai lidi frastagliati di un anacronistico percorso psicanalitico ante litteram.
Lo psicologismo di Tarchetti precorre i tempi, o piuttosto incamera quelle suggestioni tardo/postromantiche e naturaliste che crearono un terreno fertile per la psicanalisi freudiana; il romanzo somiglia a un dramma psicologico, i cui quattro personaggi coprotagonisti riecheggiano altrettante ipostasi dell’animo di Giorgio. Persino i loro nomi richiamano dei ruoli per così dire archetipali, o quantomeno stereotipici, riflettendo la funzione narrativo-epistemica loro affidata: due di loro (“il medico” e “il colonnello”) addirittura non hanno nome, mentre quello del protagonista appare solo a narrazione più che avviata, e quasi passa inosservato; di converso, è facile intravedere dietro i nomi di Clara e Fosca degli eloquenti senhal. Le due costituiscono i poli di una coppia oppositiva non priva di sbilanciamenti (il romanzo è intitolato alla seconda, mentre la prima abita a malapena lo spazio di una trentina di pagine), la cui specularità è spasmodicamente ribadita: da un lato Clara, una Gradiva leggiadra che ritiene tutta la portata salvifica della donna-angelo stilnovista (o «donna-anima», nella definizione di Giorgio/Tarchetti) – in grado, attraverso la pietà e l’amore, di guarire il protagonista dallo stato di patologica melanconia in cui versa nelle prime battute del libro. «Alta, pura, robusta, serena», Clara incarna la summa delle tradizionali virtù muliebri: non solo è bella, ma anche «forte, giusta, severa».
La sua femminilità rassicurante appare per così dire archetipica, tanto che il protagonista riconoscerà il segreto del suo fascino nella strabiliante somiglianza alla propria madre. Fosca, di converso, è un vero e proprio mostro, una moderna banshee in grado di drenare con il proprio amore oppressivo e bulimico le forze vitali dell’amato. Chiusa nelle sue stanze impenetrabili, la sua presenza fantasmatica aleggia nei discorsi degli astanti, che ne ripetono la leggenda; ne emerge solo per incontrare Giorgio, che a sua volta è l’unico – in due sole occasioni, non a caso le spannung del romanzo, e solo una volta trascorsa la mezzanotte – a poter varcare la soglia dell’antro in cui è rinchiusa. La sua stessa esistenza è un portento, «una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili» che ne modellano le fattezze: orribilmente magra, la testa troppo grande, i capelli folti, lunghissimi, neri. È, anche lei, archetipo femminile: se Clara è la madre, Fosca è la strega. Dal punto di vista morale, mentre Clara rappresenta un’etica borghese non priva di ipocrisie (si tratta pur sempre di una donna sposata) ma generalmente stabilizzante e rassicurante, le idee poetico-programmatiche di Fosca ne riflettono il vitalismo, l’anti-intellettualismo – e non possono rispecchiare in toto quelle di Tarchetti, che invece pare voler proporre, nel suo libro, riflessioni a tratti persino moraleggianti.
Le idee di Fosca sono dirompenti, e denunciano i limiti palesi di una società cattolica e perbenista: il piacere, l’amore, è pieno solo se lo si esperisce egoisticamente, a costo di trascendere la morale. D’altronde il protagonista stesso, ferito nella coscienza dall’amore per una donna sposata, si rende conto di quanto siano stringenti le leggi dell’uomo, e spera in un avallo ultraterreno di ciò che le convenzioni sociali non possono accettare; il vitalismo di Fosca invece ha un carattere fortemente immanente, riconduce il piacere alla dimensione terrena del qui e ora. È la sua schiettezza a renderla ripugnante, più ancora che la sua apparenza. Il rapporto Giorgio-Fosca è tarpato da uno stallo che paralizza il protagonista: pur rendendosi conto della propria ipocrisia, non può in alcun modo avallare il suo pensiero, eppure è evidente che Giorgio – come Tarchetti – fatichi a confutarla.
Per dirimere la foreclosure di Giorgio è dunque necessario l’intervento di un mediatore, che possa approntare uno spazio in cui l’impatto tra i due caratteri si riveli in qualche modo fruttuoso – ruolo che Tarchetti affida, significativamente, al medico che ha in cura la donna: egli incarna la voce della ragione materialista, scevra (o suppostamente scevra) di sovrastrutture morali. Il medico non dà giudizi e non si occupa di questioni di principio, si limita ad analizzare i fatti con razionalità e a proporre soluzioni empiriche a problematiche immediate, senza per questo rinunciare a una propria etica professionale; l’assenza di una dimensione erotica nel rapporto tra lui e il protagonista permette l’instaurarsi di un dialogo cristallino e sereno, non ottenebrato da passioni perturbanti e antitetiche.
Così Clara e Fosca incarnano il duplice volto della donna-madre e della donna-strega, il colonnello (ospite di Giorgio e tutore della cugina Fosca) quello rassicurante e al tempo stesso coercitivo della convenzione e il medico la saggezza materialistica e antispirituale del naturalismo. Il dilaniante dualismo Clara/Fosca, che costituisce il centro tematico del romanzo, si riflette sullo stile – conservandone anche le sproporzioni: la prosa è spesso convulsa, nervosa, aritmica, risonante degli isterismi dionisiaci di Fosca, concedendosi dei saltuari slanci di lirismo che però paiono quasi sempre artificiosi, fuori posto, a tratti persino ridicoli, sempre poco convinti.
Il conflitto che strazia il cuore e la psiche di Giorgio si ritorce su se stesso fino a collassare nel paradossale ribaltamento finale: le contraddizioni intrinseche al personaggio di Clara, cui finora Tarchetti si limita ad alludere, implodono nel fatale allontanamento della donna che, stritolata anch’essa dai vincoli della convenzione, è costretta a rinunciare al proprio amore. «Voleva dirti che io morirei perdendoti […] e ciò forma la mia gioia: io sono dunque ben certo di non perderti che morendo»: è Clara il vero mostro – con la sua spietata abiura ha ucciso un uomo. Alla violenza si ripara con la violenza, e solo l’omicidio può saziare la sofferenza di Giorgio, che accetta di sfidare in duello il colonnello offeso dalla relazione sotterranea che il protagonista ha intessuto con la cugina. E se amore e morte sono complementari, allora Fosca è davvero degna d’amore: lei che ha amato e inflitto sofferenza, che drena la vita e accetta la morte – di sé e del suo amante a un tempo; la notte prima del duello, i due giacciono in un abbraccio che per Fosca, viste le sue condizioni, non può che risultare letale. Il romanzo tuttavia non si chiude su una riflessione manieristica sull’intreccio fatale di eros e thanatos: i rovelli cervellotici del Tarchetti-eziologo finiscono piuttosto per schiantarsi contro il muro imperscrutabile di un’indomabile determinismo, che cancella con un colpo di spugna finale la validità di ogni dietrologia. «La coscienza è codarda», afferma il medico nell’explicit del libro, «essa si atterrisce spesso di mali che non commise, o che non potea non commettere. Una cieca fatalità muove e dirige le azioni di tutti gli uomini; non date loro maggiore responsabilità di quella che vi assegnano i limiti ristrettissimi del vostro arbitrio. Addio, mio buon amico, possiate essere felice, e non farvi rimprovero d’una sciagura di cui non siete stato che uno strumento».
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Nel testo, bassorilievo romano della Gradiva, IV secolo a.C., Roma, Museo Chiaramonti; un fotogramma da Passione d’amore (Ettore Scola, 1981), adattamento cinematografico di Fosca – per altri adattamenti cinematografici di opere di Scapigliati si rimanda all’articolo di Claudia Cautillo.
In copertina, Félicien Rops, Le tentazioni di sant’Antonio, 1878, Bruxelle, Bibliothèque Royale de Belgique, Cabinet des Estampes.
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