Iran: un film contro la paura
Su "Gli orsi non esistono"
di Elisa Scaringi / 14 ottobre 2022
Un gesto concreto per mostrare vicinanza alle manifestazioni iraniane potrebbe essere andare a vedere Gli orsi non esistono di Jafar Panahi. Si dovrebbe distribuirlo in tutti i cinema e farlo girare nelle scuole, proprio per suscitare la consapevolezza intorno alla difficile condizione che si trovano a vivere tante persone in Iran. Il messaggio forte e chiaro che ne esce è uno solo: da quella nazione non si esce e di ciò che accade in quel paese non si deve parlare.
L’arte di Panahi indaga il confine tra realtà e finzione, giocando con le potenzialità del cinema quale mezzo per rifiutare l’autocensura. Già a partire dal suo terzo film, Il cerchio, le vicissitudini personali si raccontano con maggiore evidenza al fianco delle donne iraniane, delle diseguaglianze sociali e della mancanza di libertà degli artisti.
Gli orsi non esistono è una meta-narrazione intorno alla propria condizione di condannato e carcerato. Mentre progetta un film da remoto, come è solito fare dopo la condanna del 2010 che gli vieta di girare pellicole, il regista vive quasi recluso nella stanza che ha preso in affitto in un piccolo villaggio di confine per seguire più da vicino le riprese della storia vera che ha deciso di raccontare: una coppia iraniana in esilio in Turchia che tenta con ostinazione un modo per lasciare il paese. Prendendo a pretesto la foto (inesistente) che gli uomini del villaggio gli vanno reclamando, Panahi mette a confronto la vita rurale di una cittadina iraniana, quella che sta dietro alla macchina da presa, con l’amara esistenza di chi è esiliato nell’altra cittadina, quella turca al di là del limite, che sta davanti alla telecamera. Se Panahi viene coinvolto nelle diatribe di uomini semplici, legati a usanze antiche e quasi tribali, i protagonisti del suo film in lavorazione sono in trattativa con i contrabbandieri per tentare di raggiungere l’Europa. Da un lato ci sono le torce per vedere di notte e le dicerie su orsi che in realtà non esistono, dall’altro la vivacità di una cittadina dove circolano molte macchine e le donne non indossano il velo.
Il senso di paura e repressione rimane però lo stesso: Panahi che si trova a disagio a dover testimoniare davanti al Corano, preferendogli la macchina da presa quale mezzo che attraverso le immagini inchioda la verità, e i due in fuga che sono intrappolati in uno stallo di disperazione dal quale non si torna indietro, perché a rischio di nuove torture, e dal quale non si va nemmeno avanti, perché i passaporti sono introvabili. In un crescendo di ansia e nodi alla gola, la disperazione di un popolo oppresso non lascia spazio al lieto fine. Ma nonostante tutto, la speranza che la parola e le immagini possano essere salvifiche è la pietra angolare e il manifesto del cinema di Panahi. Non a caso, pur avendo l’occasione di attraversare il confine, l’istinto lo riporta indietro, forte della sua militanza vissuta nel cuore di un paese vessato e tormentato dai suoi stessi vertici.
Se la presenza degli orsi è soltanto una montatura per deviare pensieri e azioni, la metafora ci racconta di un regime che costruisce la propaganda intorno al terrore e che manipola il linguaggio per reprimere. Il film diventa così il manifesto pacifista di un intero popolo, quello forte che resiste e quello sofferente che fugge: tutti in cerca di redenzione per una patria che dovrà pur rinascere libera, un giorno.
(Gli orsi non esistono, di Jafar Panahi, 2022, drammatico, 107’)
LA CRITICA
Jafar Panahi rifiuta l’autocensura e la condanna a non girare film: Gli orsi non esistono è un incitamento al suo Iran a non avere paura e a perseguire sulla strada della lotta.
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