A ognuno secondo i suoi bisogni
Su "Triangle of Sadness"
di Elisa Scaringi / 13 novembre 2022
Quando un film suscita reazioni contrastanti significa che ha raggiunto l’obiettivo: non lasciare indifferenti. Triangle of Sadness, vincitore della Palma d’oro a Cannes, potrà apparire eccessivo e scontato, troppo lungo e banale. Lo stile dello svedese Ruben Östlund, però, non può tradire sé stesso. Dopo la vittoria di The Square sempre a Cannes, il regista veste bene i panni dell’artista sicuro del suo genere, che non ha paura di prendersela con i ricchi. Il film non è altro che una lunga invettiva contro i milionari figli del capitalismo, «venditori di merda» e «distributori di Rolex», incapaci di fare altro se non accumulare sempre più denaro.
Il riferimento al titolo, il cosiddetto “triangolo della tristezza”, può essere letto apparentemente come la ruga che compare tra le sopracciglia del giovane Carl, e che ne decreta l’allontanamento dalla moda per evidente vecchiaia. I piani sono però diversi, e si intrecciano l’uno con l’altro. Tranne Carl e la sua Yaya, influencer dal portfolio importante, tutti gli altri personaggi sono uomini e donne adulti, il cui triangolo sul volto si è ormai arreso al trascorrere degli anni. Quella che per la chirurgia estetica è la “v” che caratterizza la giovinezza ha lasciato il passo a una piramide di rughe e pelle cadente. Eppure il capitalismo non conosce età: quando la barca affonda, anche il denaro si perde nell’acqua del mare, mandando letteralmente in fumo le convenzioni sociali degli ultimi due secoli, che hanno marcato il solco tra poche decine di ricchissimi e milioni di poverissimi. Ma un triangolo sta anche al centro dell’ultima parte del film, quando sempre Carl diventa il prostituto di Abigail, la responsabile delle pulizie sullo yacht per milionari, che dopo il naufragio si autoproclama il capo di una tribù incapace di sopravvivere più di un giorno senza servitù. Yaya diventa, così, la terza incomoda di un triangolo amoroso fondato non sui sentimenti, ma sull’opportunismo istintivo di chi desidera voracemente un pacchetto di Pretzel Stick.
Il triangolo unisce, infine, i punti cardinali del film, rappresentati dai tre capitoli: i soldi, l’ostentazione della ricchezza, il potere. Insomma, una visione sul fallimento del capitalismo. Nel primo, intitolato “Carl e Yaya”, la questione fondamentale sta nel fastidio che può creare, a un uomo, guadagnare meno di una donna e dover comunque provvedere anche a lei. Un bancomat si trasforma nel capro espiatorio di una situazione imbarazzante, nella quale Carl ci tiene a sottolineare la mancanza di scrupolo mostrata da Yaya nei confronti del denaro. Per lui, che è stato appena rifiutato come modello per via dei quel “triangolo della tristezza” apparso sul volto, rappresenta quasi un atto di responsabilità avere uno sguardo oculato sulle proprie spese. Per Yaya, invece, il sovvertimento della piramide uomo-donna non è un inconveniente; anzi, definisce la normalità di un mondo che può essere diverso.
Il secondo capitolo, “Lo Yacht”, alza l’asticella del disagio collettivo accennato da Carl all’inizio del film. Si ritrova in una crociera per super ricchi, omaggio alla sua Yaya per le prestazioni da influencer, circondato da milionari che si vantano di aver fatto soldi con la vendita del letame o delle bombe a mano, le stesse che poi decreteranno la fine della vacanza di lusso. Questi uomini e donne sono teatranti senza coscienza, alle prese con una cena di gala che si trasforma in una commedia del vomito; e nonostante tutto continuano a bere Champagne. Dietro le quinte c’è la servitù imbarazzata e sbigottita, impossibilitata a dire “no” e incatenata alle mance di una massa di ricconi indifferenti. A fare da registi di un ironico naufragio si improvvisano il capitano, un americano marxista, e Dimitrij, un russo capitalista, rimpallandosi al microfono di bordo altissime citazioni politiche e filosofiche sul modo di concepire il mondo e le categorie socio-economiche.
L’ultima parte, dedicata a “L’isola”, non è altro che un ritorno al primitivo, con la pesca quale unica fonte di sostentamento, il fuoco che deve essere alimentato, le pitture rupestri che esorcizzano la paura di un asino che nitrisce di notte, il baratto del sesso per mangiare un cibo tipicamente capitalista. Su una spiaggia deserta dove il denaro non esiste, è l’inserviente Abigail a prendere le redini della situazione, imponendosi fin da subito come il capitano di naufraghi incapaci di sopravvivere. E così, il suprematismo su quei ricconi che fino a poco prima l’hanno usata diventa un’arma per vendicarsi, anche se i ricchi, pur dovendo sottostare a una donna senza arte né parte, non hanno alcun problema a seguire il capo di turno. Quasi un esperimento allegorico alle basi del socialismo: dopo una crociera nella quale il capitalismo la fa da padrone, sull’isola diventa vitale distribuire le risorse, attenuando così le disuguaglianze sociali. Un nero e un’orientale, un americano e un russo, un vecchio e una giovane, un capitalista e una disabile: nonostante la convivenza forzata, pochi giorni su un’isola quasi deserta non possono cancellare la vita precedente. L’oligarca non mostrerà alcun disagio a riappropriarsi dei gioielli di un cadavere; per Carl sarà naturale dipendere da una donna per avere un riparo notturno; Abigail non avrà remore a usare un sasso per difendere la posizione conquistata.
In Triangle of Sadness il capitalismo deve morire, come una nave che affonda con i soldi e le armi, ma il socialismo non sarebbe altro che un ritorno al passato. Ruben Östlund non offre una soluzione politica al suo pubblico: mettere in scena una satira amara sulla punta della piramide che sovrasta oggi il mondo economico può bastare.
(Triangle of Sadness, di Ruben Östlund, 2022, grottesco, 142’)
LA CRITICA
Triangle of Sadness, vincitore della Palma d’oro a Cannes, è un film dall’ironia amara e quasi feroce, che sbeffeggia i ricchi mettendo in scena il naufragio del capitalismo.
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