Di scrittura e di memoria
A proposito di “La Triomphante” di Teresa Cremisi
di Manuela Altruda / 11 gennaio 2023
«Sono nata ad Alessandria d’Egitto, sull’altra riva del Mediterraneo. Non ho deciso di scrivere per dar sfogo alla nostalgia. Soltanto i luoghi riescono a scatenare dentro di me tempeste violente, ma la nostalgia è un sentimento che non amo coltivare. Sono una persona pratica, con i piedi per terra».
Non esiste scrittura senza memoria e viceversa. Chi scrive sa bene – inutile negarlo, salvo rare eccezioni – che tra le sue pagine si nasconderà sempre un gesto, un ricordo, una parola che appartiene al passato e che, volente o nolente, si paleserà in quell’atto così intimo e al tempo stesso violento. Ciò accade con smentita dello scrittore o della scrittrice di turno nel più dichiarato romanzo di finzione, e con meno tentativi di diniego in un memoir o in un testo di autofiction – questo genere tanto inflazionato quanto misterioso sul quale in molti hanno ancora le idee confuse.
La memoria è alla base della scrittura e ne è uno strumento imprescindibile. Ma chi scrive può davvero fidarsi dei suoi ricordi? E se la risposta è si, allora cosa è reale? In sostanza: chi scrive può piegare la memoria o è l’esatto opposto? È ovvio che non esista una risposta certa e scientifica, ma chi legge – per diletto o per mestiere – può comunque indagare e provare a capire fino a che punto la memoria inganni e devii il modo di raccontare una storia.
Questo vale anche per le memorie editoriali: memoir, lettere, testi, dialoghi lasciati da figure che hanno fatto la storia dell’editoria italiana del Novecento, da Calvino a Vittorini, da Ginzburg a Pavese, e così Livio Garzanti, Valentino Bompiani, fino all’ultima fatica di Gian Arturo Ferrari.
Se molte volte questo genere di testi mira a mettere sotto i riflettori il lavoro di uomini e donne già celebri, nel memoir di Teresa Cremisi La Triomphante (apparso per la prima volta nel 2016 per Adelphi, nella traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, e ora in commercio in una nuova edizione tascabile), la propensione all’apologia è molto lontana. Teresa Cremisi è stata braccio destro di Antoine Gallimard e direttrice editoriale della maison Gallimard per diciannove anni, poi presidente e CEO delle edizioni Flammarion fino al 2015 (riunendo Flammarion, J’ai lu, Casterman, Autrement e Fluide glacial) e oggi, dal 2021, dopo la morte di Roberto Calasso, è presidente di Adelphi. Inoltre fa parte del consiglio di amministrazione del Musée d’Orsay e della Bibliothèque nationale de France. Eppure in questo libro non c’è una sola parola che faccia intravedere tutto ciò: non ci sono grandi nomi o grandi incarichi, solo una donna che ha cambiato città, lavoro – passando di azienda anonima in impresa sconosciuta – e inevitabilmente sé stessa.
L’autrice ha settant’anni quando scrive La Triomphante, un memoir diviso in quattro atti – Mattina presto, Tarda mattinata, Pomeriggio, Nove di sera – in cui tutto scorre come in un’opera lirica. Con fare da contralto la voce di Teresa racconta al lettore gli affetti, le delusioni, ma anche le incertezze di una vita da migrante. In chiusura – Mezzanotte e mezza – c’è una poesia intitolata Dalle nove di Constantinos Kavafis, poeta originario anch’egli di Alessandria. Non è un caso l’accostamento alla lirica perché il titolo sembra un rimando convinto alla Juditha triumphans di Antonio Vivaldi, l’unico oratorio sopravvissuto dei quattro – il numero quattro che ritorna – scritti dal compositore veneziano. L’oratorio viene citato nel libro a metà della narrazione e se in un primo momento sembra chiarire la scelta di questo titolo ermetico e sfuggente, è la stessa autrice a smentire in seguito le conclusioni affrettate del lettore: «Dopotutto Giuditta aveva trionfato solo su Oloferne, ubriaco fradicio e innamorato».
In quest’opera Cremisi mette ordine tra i ricordi e prova a colmare i vuoti di memoria, come quando tentava di ricostruire le storie nascoste dietro cartoline d’epoca trovate in una vecchia scatola da scarpe nel negozio di un rigattiere ad Avignone. Nata nel 1945 ad Alessandria d’Egitto, cresce negli anni della crisi del canale di Suez, in un contesto familiare multiculturale: suo padre era un imprenditore italiano, sua madre una scultrice spagnola e italo-inglese, Teresa frequenta il collegio cattolico francese di Nostra Signora di Sion. Intorno ai dieci anni si rende conto che la sua condizione non è la normalità ad Alessandria: possedere diversi passaporti – quello svizzero era considerato «il massimo dello chic» –, vivere in palazzi un po’ stile Haussmann un po’ Art déco, essere in vacanza già a marzo in Svizzera e poi ad Antibes nei mesi più caldi, spostarsi in Chevrolet e non con il «treno dei poveri», si tratta di privilegi per pochi.
Le rivolte del Cairo del 1952 furono spia di qualcosa che stava cambiando, ma è nel 1956 che i Cremisi sono costretti a lasciare quella vita effimera per scappare da ciò che sarebbe venuto dopo. Se fino a quel momento i viaggi sono stati simbolo di una vita agiata, dopo il 56’ si trasformano in necessità. La prima tappa dell’epopea dei Cremisi è Roma.
«Perché proprio Roma? Per mia madre era evidente: per via del nostro passaporto italiano e dei rapporti d’affari di mio padre».
Qui la famiglia acquista un appartamento in fondo a via Nomentana, all’epoca margine estremo della città, inizio o fine di essa, a seconda dei punti di vista. In questi anni c’è di buono che la madre riesce a farsi notare come artista, grazie anche all’appoggio di un noto scultore del tempo, Pericle Fazzini, conosciuto alla Biennale di Venezia. Acquistano una Fiat seicento verde oliva per esplorare le spiagge del litorale laziale così come facevano in Egitto. L’illusione di serenità dura però poco: il 26 luglio del 1956 il presidente Nassar annuncia la nazionalizzazione del canale di Suez, e l’azienda di cui è socio il padre di Teresa è in gravi difficoltà. Ancora una volta la loro storia va di pari passo con quella dell’Egitto, ancora una volta sono costretti ad andare via. Teresa legge I sette pilastri della saggezza di Lawrence e, come è solita fare, cerca di farsi coraggio leggendo. Prossima tappa: Milano.
«Non sapevamo bene dove si trovasse Milano. Al nord, vero?»
Nei primi mesi alloggiano in un hotel alle spalle del Duomo, l’Albergo Rosa; il padre riesce a ottenere un lavoro grazie a un conoscente di Alessandria mentre la madre trova un nuovo appartamento facendo oscillare un pendolo su una vecchia mappa della città; la giovane Teresa si iscrive a scuola in un convento di suore marcelline e il suo migliore amico e consigliere è lo stendhaliano conte Mosca. Poi ci sarà l’università, la laurea in Lingue, e il primo impiego in una redazione di un giornale grazie a un pezzo di critica teatrale – anche se il suo obiettivo è la politica interna. Ma il traguardo sarà diverso e inaspettato: direttrice della tipografia del giornale per molti anni e codirigente del gruppo editoriale insieme al delfino dell’azienda, il figlio del direttore. Crede – come sempre accade con i primi impieghi – di aver trovato il lavoro della sua vita, ma ci saranno momenti di grande sconforto e pentimento. In quei casi va in un supermercato, il suo preferito è la Upim di corso Vercelli. Intanto Teresa perde la madre che prima di morire ha avuto la lucidità di attuare il suo piano di damnatio memoriae della famiglia: aiutata da una qualche domestica corrotta distrugge foto, lettere e ricordi. Sopravvive all’operazione una foto degli anni egiziani, ritrovata solo dopo la morte del padre. Un feticcio della memoria o un appiglio.
È un momento complesso caratterizzato dall’insoddisfazione nei confronti dell’Occidente idealizzato come concetto, solo «una grigia omologazione ottenuta a furia di impegno e rinunce», e dallo spaesamento. È ancora un libro a chiarirle le idee: Conrad le suggerisce di andare oltre la sua linea d’ombra e Teresa si trasferisce a Parigi, terra della lingua materna – lingua delle origini, degli anni felici e non a caso scelta anche per la scrittura di questo testo. Nel racconto degli anni francesi viene fuori con forza un tema che torna in tutta la narrazione: la lingua, quella salvata in senso canettiano, è considerata l’unico mezzo possibile per integrarsi. Solo la lingua ci fa appartenere. Il francese di Teresa è ancora lì, nella sua memoria, ma è quello della madre, un vocabolario datato da manuale scolastico che lei cerca di aggiornare ascoltando tutto ciò che la circonda. Apprendere, assimilare. È così che dopo anni si convince di essere pronta per richiedere la cittadinanza francese nonostante le sedici pagine di documentazione da compilare e un test attitudinale impossibile da sostenere.
All’identità linguistica si affianca la ricerca di quella religiosa. Teresa si fa battezzare da bambina senza troppa convinzione e solo perché le sue compagne di classe sono cristiane. Arrivata a Parigi chiunque incontri dà per scontato che sia ebrea. Del resto «gli ebrei d’Alessandria sono il sale della terra», come faceva a non rendersene conto?
Dopo lunghi anni il legame con Parigi sembra vacillare, così Teresa decide di passare alcuni mesi dell’anno in un piccolo borgo sul mare. Qui il lettore scopre che la Triomphante non è Giuditta, l’eroina biblica che ha trionfato con l’inganno, ma una corvetta dell’Ottocento oggetto di un disegno di Édouard Jouneau, un felice ritrovamento dell’autrice presso un antiquario parigino. Tutto sembra più chiaro: Teresa è nata dal mare e al mare ritorna, nella piccola Atrani: «Ho un’immaginazione portuale» scrive nella prima riga di questa opera meravigliosa, e dopo averla letta nulla ci sembra più vero e sincero. Nonostante la dichiarazione di non scrivere per dare sfogo alla nostalgia, questo libro, fatto di parole semplici ma scelte con cura – un lessico che ricorda quello famigliare di Natalia Ginzburg –, profuma di mare, di carta e di vecchie foto ritrovate in un mercatino delle pulci. Questo libro sa di memoria, reale o ingannevole che sia.
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