Cos’è la fame
Tre autori per una condizione a noi quasi sconosciuta
di Elisa Carrara / 20 febbraio 2023
Io non so cosa sia la fame, la fame vera: non la conosco, e non sarei in grado di raccontarla. Appartengo a quella porzione di mondo che crede sia normale sedersi a tavola tre volte al giorno e consumare pasti diversi e nutrienti; che impiega più o meno trenta minuti per assemblare un piatto, i cui ingredienti sono stati acquistati al supermercato, in offerta.
Non conosciamo la fame perché come tutto ciò che conta nella vita (l’amore, il dolore, la morte), può essere compreso solo attraverso l’esperienza diretta. Possiamo ricorrere all’immaginazione e chiederci: cosa si prova a essere affamati? Non per qualche ora, per un giorno o due, ma per settimane, mesi, anni. È una debolezza infinita? Un tormento perpetuo? Qual è il limite, il momento esatto in cui il vuoto nello stomaco diventa un buco nero, una voragine capace di inghiottire il corpo, l’anima, la vita stessa?
Con la fame accade esattamente quello che succede con l’idea della morte: talvolta ci illudiamo di afferrarla, di capirla, perché ne incontriamo ciò che crediamo essere una sua versione attenuata, purificata. Quando immaginiamo di non esistere più, pensiamo al buio, al momento in cui chiudiamo gli occhi prima di addormentarci; e quando immaginiamo la fame, pensiamo ai morsi dello stomaco o a quella volta che abbiamo digiunato per un giorno intero.
Un corpo affamato è un corpo che mangia sé stesso, e non è una metafora. A spiegarlo bene è Martín Caparrós giornalista e scrittore argentino, nella sua opera monumentale La fame (Einaudi, 2014): chi è affetto da denutrizione acuta (una delle tante definizioni della fame) si consuma fino a non esistere più.
È in questa fase, spiega, Caparrós, che compare il kwashiorkor, la condizione dal nome impronunciabile, che colpisce prevalentemente i bambini piccoli (sotto i 5 anni): addome sporgente, ingrossamenti al volto, alle braccia, anemia, capelli che virano al rossiccio, ossia i segni ostensivi della fame. Quelli che abbiamo imparato a riconoscere soprattutto nei corpi dell’Africa subsahariana, condannati allo status di affamati perpetui, a essere una forma, una nozione nella nostra scala di conoscenza; condannati a non avere un’identità, ma a diventare, loro malgrado, solo la rappresentazione di un fenomeno: tutti uguali, indistinguibili, gonfi, disperati. E soprattutto, lontani, da noi, dal nostro modo di vivere, dal nostro modo di mangiare e di esistere.
Nell’agosto del 1968 Goffredo Parise visitò l’allora Repubblica del Biafra e raccontò la sua esperienza, prima in Biafra (Feltrinelli, 1968), poi in Guerre politiche (Einaudi, 1976), una serie di reportage forse tra i più toccanti della storia del giornalismo italiano: i momenti significativi riguardano l’ingresso e la permanenza in un campo profughi a Umuhaia (oggi in Nigeria): «Solo un poco alla volta», scrive al suo arrivo, «e aguzzando lo sguardo si riesce a distinguere in questa massa, che ha perduto le caratteristiche individuali dell’umanità e ha assunto quelle collettive e indecifrabili della morte, ciò che un tempo doveva essere un uomo, una donna, un bambino. Si è costretti a guardarli dall’alto perché quasi nessuno si regge in piedi». Poi si sofferma sui più piccoli «una folla di minuscoli vecchi in silenziosa, educata, composta attesa» e introduce un elemento chiave, ricorrente nell’osservazione e nel racconto della denutrizione: il silenzio e la fame sono viaggiatori destinati non solo a incontrarsi, ma a coesistere. Anzi, si può dire che senza l’uno non esisterebbe l’altra.
Parise descrive i bambini come creature ultraterrene, esserini che vagano in un limbo, sospesi tra la vita e la morte, inconsapevoli di entrambe e perciò indifferenti alla loro condizione. Il corpo grida, ma dalle bocche non esce un suono: i movimenti sono lenti, e persino la vista del cibo non produce in loro il minimo interesse. Parise, a questo punto, compie un’ulteriore operazione di avvicinamento: il suo sguardo oltrepassa la folla indistinta, per arrivare a un gruppo più ristretto (i più piccoli), fino a soffermarsi su un microcosmo composto da sole due persone: si lascia rapire da un’immagine, una giovane madre, una ragazza sui 15 anni, che ruba, nascondendosi, quel poco cibo che viene portato al figlio di appena due anni.
Scrive Caparrós quasi cinquant’anni dopo il reportage dello scrittore vicentino: «C’è stato un tempo in cui la fame era un grido, ma la fame contemporanea è, soprattutto, silenziosa: la condizione di chi non ha la possibilità di parlare. Parliamo – con la bocca piena – noi che mangiamo. Chi non mangia in genere tace. O parla dove nessuno lo ascolta».
Nel 1890 il norvegese Knut Hamsun pubblicò un romanzo semiautobiografico dal titolo esplicito: Fame (Adelphi, 2002) è la cronaca della vita quotidiana di uno scrittore bohémien, che cerca di sopravvivere nella capitale norvegese di fine Ottocento, Cristiania (che di lì a poco avrebbe cambiato il nome in Oslo). Il libro inizia con un’affermazione sincera e radicale «A quel tempo ero affamato»: e tale convinzione profonda lo accompagnerà per quasi tutto il tempo. Lo vediamo vagare di notte nella città, coricarsi sulla panchina in un parco pubblico, vendere il panciotto e la coperta in cambio di qualche moneta. Lo osserviamo svegliarsi in una soffitta spoglia, addormentarsi con le scarpe addosso per non sentire troppo freddo, tentare di procurarsi carta e matita per scrivere degli articoli, proporli a un giornale e guadagnare qualcosa. «Avevo una fame atroce. Avevo tanta fame che non sapevo dove battere la testa. […] Mi strappai una tasca dalla giacca, me la ficcai in bocca e mi misi a masticare, ma senza pensarci, aggrottando la fronte […].»
In questo grandioso romanzo (che raggiunge le vette di Kafka e Dostojevskij) Hamsun sottolinea un elemento nuovo nel racconto della malnutrizione: chi ha fame non solo è circondato da un silenzio assordante, ma ha perduto il diritto di esprimersi e di essere capito. A non essere ascoltate sono le grida di aiuto, è vero, ma anche ciò che l’affamato vuole e può dire.
Nell’indifferenza del mondo urbano, il protagonista di Hamsun cerca disperatamente di aprire bocca, per parlare, nutrirsi, socializzare e persino amare: ignorato, tenta di trovare altri modi di esprimersi, di urlare al mondo la sua fame, di cibo e di vita. La scrittura gli appare come l’unica via di salvezza, come il solo mezzo attraverso il quale poter rivendicare la propria esistenza. Chi non può nutrirsi, semplicemente non esiste e non ha alcun potere, sulla sua esistenza, sul futuro, sul presente. Non possiede neppure l’opportunità di immaginare, perché ogni energia, ogni gesto, ogni pensiero sono tesi a capire se e quando si mangerà di nuovo.
Trovare del cibo, quando non lo si possiede o non si ha accesso ad alcuna riserva, è un’impresa sfiancante: si è costretti ad attingere alle ultime risorse per cogliere anche la minima traccia di un qualche tipo di risorsa. Siamo abituati a pensare che mangiare sia un atto meccanico, naturale; che ciò che si trova sulla nostra tavola sia il risultato di scelte e, perché no, di una accurata preparazione. Ma la realtà, per chi non siede alla nostra stessa tavola, è ben diversa.
Ci sono posti nel mondo, in cui per assicurarsi un pasto, bisogna svegliarsi all’alba, e lavorare senza sosta fino a che non si è ottenuto il cibo: per poi andare a dormire e ricominciare daccapo il giorno dopo. Lo racconta sempre Caparrós (e sempre benissimo) quando, nelle prime pagine del suo libro, dialoga con una ragazza in Niger: la sua giornata è letteralmente scandita dalla preparazione di un impasto di miglio, da dare al marito e ai figli. Per lei non esiste altro: l’idea di poter mangiare qualcosa di nuovo o di poter trascorrere i suoi giorni in modo diverso non la sfiora neppure. La sua vita è un’eterna e incessante preparazione di un pasto.
C’è, infine, una definizione nell’opera di Caparrós che mi è rimasta impressa e che trovo particolarmente vicina anche al libro di Knut Hamsun, e proviene da una donna in Bangladesh: «la fame sono centomila zanzare nell’orecchio».
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