Cesare Pavese fra attualità e rivalutazione storica
di Angelo Gasparini / 22 aprile 2011
Quando parliamo di Cesare Pavese, sia per i lettori più affezionati che per tutti coloro che se lo sono solo sentiti raccontare, è un po’ come tirare in ballo un amico comune, una figura letteraria che – a partire dal secondo Dopoguerra – ha accompagnato la storia d’Italia, attraversando le mode e le generazioni.
Indimenticabili romanzi quali La luna e i falò, Paesi Tuoi, Il compagno o Il Diavolo sulle colline, hanno avuto da sempre il merito di parlarci delle nostre terre, nell’accezione più intima possibile, come nessun altro aveva mai fatto: se è vero, infatti, che il tono narrativo assume i caratteri tipici della schiettezza contadina, di quell’italiano rustico che sentivamo in bocca alle nostre nonne, è altrettanto vero che il poeta delle Langhe – che aveva appreso alla perfezione la lezione di Hemingway – ci offra un quadro della realtà sotto una luce disincantata e, allo stesso tempo, un po’ mitizzata.
Nel caso de La Luna e i falò, secondo il professor Angelo Rescaglio, di cui ricordiamo il volumetto Cesare Pavese, tra amore per la pagina scritta e solitudine esistenziale, balza subito all’occhio il riscontro dei simboli della cultura contadina (i falò) che – ieri come oggi – sono segno di grande festa e gioia per le comunità agresti.
Il libello propone cinque interventi del professore , scritti fra il 1973 e il 2000, circa il più celebre e compianto scrittore piemontese. Dall’analisi del libro, emergono un “biologico attaccamento” alla terra d’origine da un lato e, dall’altro, la profonda solitudine esistenziale che ha a larghi tratti ha accompagnato l’autore.
Se ci soffermiamo sul primo aspetto e prendiamo La Luna e i falò come corpus iuris della poetica pavesiana, ci accorgiamo subito che l’immagine delle Langhe – che ci viene offerta – è pervasa da un’aria mistica e – allo stesso tempo – incontaminata, che è la metafora di un’infanzia lontana e di una purezza irrimediabilmente e malinconicamente perduta.
Ma non solo. Parlare della terra natia, significa per Pavese sconfinare in una solitudine aspra e sottile e, pedissequamente, assumersi un impegno di matrice politico-civile: un esempio su tutti, La casa in collina. Fare questo tipo di letteratura equivale, per il Nostro, a rendere testimonianza alla storia vista dalla parte di chi la subisce, ad erigere dei veri e propri monumenti a quei personaggi schietti e sinceri che tanto abbiamo amato, inequivocabili metafore di una quotidianità che non verrà mai annoverata nei libri di scuola.
Sottolineiamo, inoltre, che la lingua di Pavese – passibile di pragmatismo e sobrietà – è, ancora oggi, grazie alla sua robustezza e linearità, considerata un modello da molti critici, scrittori e insegnanti che, nei più svariati corsi di scrittura creativa, cercano di trasmettere agli “scriventi” le basi per dare corpo a un proprio stile.
Aprendo una parentesi su ciò che riguarda il rapporto carnale fra letteratura e lacerante solitudine, vi ricordiamo che è stato lo stesso Pavese a confessarcelo: “ … non si può bruciare la candela da due parti; nel mio caso l’ho bruciata da una parte sola e la mia cenere sono i libri che ho scritto.”
La grande eredità che Pavese ci ha lasciato, tuttavia, consiste, al di là del giudizio letterario, in una moralità esemplarmente superiore e in una coscienza civile sopra le parti: “ora che ho visto la guerra civile, so che tutti, se un giorno dovesse finire, dovrebbero chiedersi: e dei caduti che ne facciamo? Perché sono morti? … io non saprei cosa rispondere … forse lo sanno unicamente i morti, o soltanto per loro la guerra è finita veramente”.
Il bello dell’autore di Lavorare stanca e di Arriverà la morte e avrà i tuoi occhi è, senza dubbio, il fatto che riesce ad armonizzare un mondo fatto di realtà e di necessità senza mai scadere nella retorica o assurgendo al ruolo di vate moralizzatore ma, fedele alla parabola neorealista, si dimostra sempre incline all’essenzialità to cure e all’immediatezza del tono colloquiale. In ultima analisi,quindi, ribadiremo – anche in questa sede – che mentre i fatti scompaiono, i monumenti rimangono.
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