[Romaeuropa Festival] Carter Tutti & Ryoji Ikeda al teatro Palladium
di Jacopo Benedetti / 14 dicembre 2011
Uno dei più originali concerti svoltisi al teatro Palladium di Roma all’interno della manifestazione Romaeuropa Festival, ha visto come protagonisti prima Chris Carter e Cosey Fanni Tutti (ex Throbbing Gristle) e successivamente l’artista audio-visivo giapponese Ryoji Ikeda.
I primi hanno presentato un progetto dal nome Carter Tutti/Harmonic Coaction set, un live set di circa un’ora il cui sound ricorda, almeno in parte, le suggestioni uditive alle quali i fondatori della musica industrial – il termine è stato coniato proprio per loro, i Trobbing Gristle di cui poco sopra – ci hanno da più di un trentennio abituati.
Arricchita da un interessante video, in bilico tra l’astratto e il figurativo, fatto di immagini sfocate e da colori piuttosto vivaci, la loro esibizione è stata, a mio parere, decisamente coinvolgente, pur risentendo magari di un’acustica non ottimale (in parte dovuta verosimilmente alle caratteristiche strutturali della location) le cui “sbavature” divenivano più evidenti ogni qual volta subentravano sonorità dalle frequenze particolarmente basse, alle quali seguivano immancabilmente insistenti vibrazioni ambientali dall’effetto fortemente coprente e per questo uniformante.
La loro musica, collocabile all’interno della cosiddetta scena ambient industrial, possiede per l’appunto una fortissima efficacia spazializzante e dischiude orizzonti dominati spesso da pura desolazione e inquietudine, descrittivi forse della condizione spaesante dell’uomo in una dimensione che potremmo definire post-urbana, fatta di silenzi e brusii solo sporadicamente rotti dall’epifania di qualche crudele macchinario ormai vivente (o piuttosto morente) di vita propria e sbuffante dalle più remote e inaccessibili lande.
Su un tappeto di loops sotterranei e ipnotici e ritmiche tanto lontane quanto solitamente tuonanti, si innestano rumori di apparecchiature elettroniche che emettono misteriosi segnali, stridii di lamiere graffiate, eco di sconosciute macchine al lavoro e insoliti campionamenti, il tutto in un’orchestrazione variegata e ricca di contrasti, fatta di elementi che danno sovente l’impressione di procedere separatamente, quasi noncuranti gli uni degli altri e per questo tali da sovrapporsi e alternarsi nei più disparati e apparentemente caotici modi.
Le atmosfere sono scure e arcane e le tracce si susseguono ininterrottamente confluendo, con estrema gradualità, l’una nell’altra quasi si trattasse di un unico, poliedrico e camaleontico brano, una sorta d’escursione notturna sobriamente sperimentale e a tratti dance-oriented, che vede intervallarsi momenti di sottile e fortemente riverberata malinconia a passaggi più caustici e ossessivamente percussivi.
L’altro illustre ospite della serata è stato, come già ricordato, Ryoji Ikeda, una delle punte di diamante della Raster Noton, etichetta fondata dal più che mai affine (musicalmente parlando) Alva Noto.
Possiamo anzitutto sottolineare l’incredibile organicità e il fortissimo impatto scenico della performance di quest’ultimo, un lavoro che palesa un’assoluta simbiosi, coerenza e continuità tra l’aspetto sonoro e quello visuale; a ciò aggiungiamo, senza addentrarci in questa sede in possibili spiegazioni circa le ragioni di una tale manifesta differenza col duo che l’ha preceduto, che nonostante il teatro della Garbatella (peraltro certo non gremito) non sia forse il luogo più adatto per un’appropriata propagazione del suono, la musica dell’artista nato a Gifu sembra non averne minimamente sofferto, uscendo dall’amplificazione cristallina come sempre.
Test pattern (è questo il nome del suo ultimo progetto) è un sistema studiato per convertire ogni tipo di dati (testi, suoni, foto e video) in patterns di codici a barre e patterns binari di zeri e uni.
Il risultato è un potente spettacolo fatto di immagini essenziali altamente sincronizzate e rigorosamente in bianco e nero che, nella totale oscurità della sala, scorrono a velocità elevatissime (in certi casi alcune centinaia di frame al secondo) su un grande schermo alle spalle del musicista diviso in due simmetriche e interconnesse sezioni.
Il dimesso, immobile e all’apparenza “alienato” Ikeda, col suo look (guarda caso) total black, sembra fondersi con il video alle sue spalle fino quasi a scomparire; lo spettatore, d’altro canto, è completamente immerso in un ambiente ultratecnologico e vorticoso che pare risucchiarlo e giocare all’impazzata con la volubilità delle sue capacità percettive, sondandone con la più assoluta radicalità i mutamenti e le disfunzioni.
Tale lavoro, profondamente concettuale, si configura infatti come un tentativo di analisi della relazione che intercorre tra i punti critici di un dispositivo per performance e la soglia della percezione umana, spingendo entrambi ai loro più estremi limiti.
Ciò vale ovviamente anche per il versante audio, consistente in una ricerca iperminimale che lascia trasparire la predilezione dell’artista per le altissime e le bassissime frequenze; le ritmiche sono spesso serrate e sbalorditivamente fluide (pur “inceppandosi” a tratti, cosa che conferisce all’insieme una forza piacevolmente straniante), possiedono la vertiginosità e l’automaticità di un congegno martellante e completamente fuori controllo; i suoni di cui il suo stile si nutre sono “elementari” e al tempo stesso maniacalmente cesellati, rimbalzano incessantemente e freneticamente da un canale all’altro e deliziano l’ascoltatore con le loro multiformi e antitetiche qualità timbriche: si combinano infatti sonorità delicatissime ad altre decisamente dure e penetranti, il tutto elaborato con immane pulizia, inverosimile raffinatezza e puro rigore matematico, una sorta di sinfonia algoritmica dalla resa spiccatamente hi-tech.
È lo stesso Ikeda ad illustrarci i tratti salienti del suo approccio quando sostiene che «la bellezza è cristallo, razionalità, precisione, semplicità, eleganza, delicatezza. Il sublime è infinito, infinitesimo, immensità, indescrivibile, ineffabile».
Ne consegue uno stupefacente prodotto in grado di commuovere, paradossalmente, pur nel suo voluto e incorruttibile distacco, a mio avviso una delle più alte e geniali manifestazioni della creatività contemporanea.
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