“Old Ideas” di Leonard Cohen

di / 15 febbraio 2012

Bisogna sempre essere obiettivi. Imparziali nella critica e nel giudizio. Ma quando si parla di Leonard Cohen i parametri saltano. È difficile rimanere distaccati di fronte al più grande cantautore vivente e uno dei maggiori poeti del secolo. Già, perché Mr. Cohen, discostandosi dalla tradizione folk di Dylan e dai cantastorie figli di Brassens (tra cui De Andrè), è il cantautore più importante in circolazione dal ’68 – anno di Songs of Leonard Cohen – ad oggi. Da Nick Cave a Tom Waits, da Tori Amos ai R.E.M., tutti hanno reso omaggio e riconosciuto il dominio della struggente e delicata arte dell’artista canadese, capace di emozionare con quel tono rauco e tagliante come un rasoio, sempre più grave e gutturale, capace di cantare testi intrisi di emotività, consapevolezza storica e fede religiosa. Non c’è in giro addetto ai lavori che non riconosca la sua smisurata importanza e autorevolezza. E tale leadership sembra inscalfibile, soprattutto dopo l’abbandono delle vecchie idee in questione.

«I love to speak with Leonard / He’s a sportsman and a shepherd / He’s a lazy bastard / Living in a suit» (“Going home”).

Old Ideas, ma non per questo meno coinvolgenti. Le tracce dell’ultimo album giravano dal vivo già da qualche anno (“Darkness” e “Lullaby” dagli ultimi tour, e “Crazy to Love You” dal 2006), ma solo adesso finiscono nella track list. Nel complesso il disco è prevalentemente acustico, essenziale; ogni strumento e base musicale – per quanto pregevole – è sempre un tappeto, un accompagnamento fedele alle parole del poeta. I ritmi e l’atmosfera sono come sempre lenti e rarefatti. Si respira però un’aria più intima e profonda rispetto ai lavori precedenti e il dolente pessimismo dell’ultimo capolavoro (The Future, 1996) lascia spazio a toni più confidenziali. Fin dalla prima traccia infatti il cantautore parla di se stesso, menzionandosi con nome e cognome, accompagnato da stupendi cori femminili, intenti a succedersi in numerose tracce, sfociando nel culmine di “Lullaby”. La palma dalla canzone più bella, quella che immancabilmente finirà nelle antologie, secondo il sottoscritto, se la contendono “Show me the place” e “Darkness”. La prima struggente e supplichevole, la seconda dall’arrangiamento più sinuoso e il testo più oscuro.
Nel complesso, il lavoro del Maestro è il suo disco più bello, compiuto e coerente dal già citato The Future e altrettanto magnifico è ciò che lascia dopo l’ascolto. Considerando poi che Leonard Cohen, nonostante la veneranda età, è ancora molto lontano, per fortuna, dallo scrivere il suo testamento musicale definitivo.

«He wants to write a love song / An anthem of forgiving / A manual for living with defeat» (“Going home”).

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