“Senza passare per Baghdad” di Luigi Farrauto

di / 28 marzo 2012

Non leggete questo libro se la strada casa-lavoro vi piace, e non vi sembra ogni giorno la stessa. Non leggetelo se il vostro tran tran quotidiano non suona tanto ripetitivo da diventare assordante. Non leggetelo, a meno che non vogliate sconvolgere quella routine.

Luigi Farrauto, classe ’81, esordisce nel mondo della scrittura con un romanzo che racconta proprio questo: il ribaltamento dell’abitudine, la voglia di dare una svolta a una quotidianità che ha al sapore della monotonia. Ognuno di noi deve averlo sentito almeno una volta nella vita: è un ronzio insistente, fastidioso. Inizia la mattina quando apriamo la finestra e i palazzi, gli alberi, il cielo davanti a noi sono sempre gli stessi. Finisce quando arriviamo in ufficio – per chi ce l’ha un ufficio dove andare –, o all’università, o restiamo a casa e ci sediamo alla nostra scrivania, sulla quale vige un caos immutato da anni. Per alcuni ritorna, la sera, quando il nostro affaccendarsi rallenta, e a volte è così forte che non ci fa dormire.

Senza passare per Baghdad (Voland, 2011) racconta questo, lo strano prurito che sentiamo scoprendo in cielo la scia di un aereo: è la storia di Alex e Jari, di un manista e di un esploratore, di Milano e di Damasco, di un mondo in bianco e nero e di un mondo che scoppia di colori. È proprio su queste contrapposizioni, infatti, che l’autore gioca la sua narrazione, e costruisce le vicende che uniscono e dividono i due protagonisti, amici inseparabili da sempre, eppure incredibilmente lontani.

Alex ama la sua Milano, ci vive bene, non se ne allontana mai e la ritrae sempre, rigorosamente, in bianco e nero. La fotografia per lui è precisione, adora passare ore nella camera oscura e di lavoro fa il manista. A Jari, invece, Milano sta stretta, non può passarci più del tempo necessario a dare qualche esame, e a farsi assegnare il prossimo reportage, che gli permetterà di ripartire. Per lui la fotografia, come la vita, è movimento, azzardo, imperfezione. Scatta mille foto al giorno, e le riviste di viaggio lo pagano per fare ciò che ama di più.

Due opposti, che come da tradizione si attraggono e si completano, spesso senza neanche il bisogno di parlare. La lingua di Alex e Jari, infatti, è fatta di immagini, di fotografie che da sole bastano a raccontare le esperienze più diverse, costruendo una sintassi tutta nuova, che è poi quella che solitamente stabilisce gli equilibri di ogni viaggio: «I viaggi hanno una sintassi tutta loro: con lo zaino in spalla e fuori dal suo contesto, ogni persona si priva della propria identità sociale, diventa un viaggiatore, con una serie di esperienze simili, di luoghi e sfighe da scambiarsi come figurine. Il viaggio è un calderone sociale, in cui qualunque classe gioca con le stesse regole e si misura con gli stessi dadi. Lo trovo favoloso. Mi fa sentire sereno, a mio agio col mondo, come se girassi alla sua stessa velocità».

È così che, d’improvviso, scrollarci di dosso il nostro torpore quotidiano non ci sembra l’impresa titanica che ci era sempre apparsa. Per Jari è una passeggiata, bastano uno zaino e un libretto color porpora di sole trentadue pagine. Ad Alex costerà giusto qualche riflessione e qualche cicatrice in più.

Un linguaggio evocativo, sfuggente e colorato, quello di Farrauto, che in questa sorta di diario doppio e parallelo mira a trasmettere una verità semplice e lampante, troppo spesso assopita tra le banali fatiche di ogni giorno: «Così ieri sera mi sono addormentato con gli occhi pieni di mondo e di rotaie, e nella notte ho sognato di chiamarmi Jari, di avere gli occhi azzurri e di girare il mondo, perché quello che c’è dietro è tanto affascinante che ogni giorno speso fermo in casa è come viverne uno in meno».


(Luigi Farrauto, Senza passare per Baghdad, Voland, 2011, pp. 208, euro 13)

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