“Mommy” di Xavier Dolan
di Francesco Vannutelli / 5 dicembre 2014
Nel Canada di un futuro immediato (il 2015), il governo ha varato una riforma del sistema sanitario che permette ai genitori di scaricare i figli problematici in ospedali psichiatrici senza la sentenza di un tribunale o il parere di un medico. Steve è uno di questi ragazzi. È rinchiuso in un istituto giovanile, ma è talmente indisciplinato da venire espulso dopo aver dato fuoco alla mensa. La madre, Diane detta “Die”, è costretta a riprenderlo a casa. Sono soli, perché il padre è morto anni prima e li ha lasciati con problemi economici che Die affronta accettando ogni lavoro. È vitale e feroce nella sua bellezza aggressiva, Die, sboccata e sfacciata quel tanto che basta per risultare odiosa o irresistibile. Steve è peggio. È iperattivo, pronto a scatti d’ira che non rispettano niente e nessuno, ma è «pieno di carisma», come ripete sempre la madre. Il rapporto tra i due è difficile e teso, si insultano, si urlano contro. Si amano in un modo malato, con Steve che vorrebbe le attenzioni della madre solo per sé e Die che non sa gestire l’incontenibile smania del figlio. Tra di loro si inserisce Kyla, una vicina rimasta muta a seguito di un trauma (la morte di un figlio, ma non è specificato) e che lentamente sta riniziando a parlare.
Il canadese Xavier Dolan è probabilmente il più grande talento del cinema mondiale. Dal 2009 dell’esordio come regista e sceneggiatore con J’ai tué ma mère a oggi ha diretto e scritto cinque film. Ha recitato in una quindicina di progetti, tra televisione e cinema, è il doppiatore di Stan nella versione franco-canadese di South Park, e ha ottenuto trentasei premi internazionali, l’ultimo, e il più prestigioso, a Cannes, il Premio della giuria per Mommy. Sembra il curriculum di un cineasta navigato, eppure Dolan ha solo venticinque anni. È emblematico che il premio a Cannes sia arrivato in ex aequo con Addio al linguaggio di Jean-Luc Godard. Sembra quasi un passaggio di testimone, tra la vecchia e la nuova generazione. Non che Dolan abbia molto in comune con il cinema di Godard, se non nella voglia di sperimentare.
In Mommy, infatti, Dolan prosegue una ricerca sul formato che aveva iniziato con Laurence Anyways, filmato interamente in 4:3, e portato avanti con i momenti in cinemascope di Tom à la ferme. La scelta per l’ultimo lavoro è quasi estrema: il rapporto 1:1, che mostra sullo schermo una porzione minima di video, come le riprese fatte con il cellulare orientato nel verso sbagliato. Quello che si vede è grosso modo un rettangolo. Il resto, tutto il resto, è nero.
Dolan aveva sperimentato il formato nel video clip realizzato per la band canadese Indochine, “College Boy” (lo potete vedere qui, ma è piuttosto crudo), e se ne era innamorato. Costringe lo spettatore a concentrarsi solo sui personaggi e le loro azioni, senza disperderli nel contesto del paesaggio. È questo che voleva Dolan, è questo che ha ottenuto. Perché in Mommy non si ha modo di volgere lo sguardo altrove da Die, Steve e Kyla. Sono loro il centro di uno schermo nero, unico punto di luce, a volte in due, pochissime volte in tre, molto spesso da soli. Chiudendo lo sguardo della telecamera, Dolan riesce a mostrare tutto quanto quello che i suoi personaggi si portano dentro.
C’è della claustrofobia, nella visione di Mommy. L’occhio sente il bisogno di respirare, di aprirsi. Anche Steve, Die e Kyla hanno questo bisogno, ma sono schiacciati, oppressi dalla vita. Perché Die lotta ogni giorno tra l’amore estremo per il figlio e la paura, l’incomprensione, che non le permette di avvicinarsi del tutto. Steve ribolle di rabbia per ogni cosa, mentre vorrebbe solo il consenso della madre, o in alternativa la sua punizione, e Kyla combatte il suo silenzio, la sua inadeguatezza, cercando di aiutare per sfuggire dalla sua condizione familiare, da un marito che appare distante, da una bambina che non sa amare. Sono loro, i prigionieri del rettangolo di schermo che mostra il mondo. Sono loro che possono aprirlo. C’è un momento, molto riuscito, in cui Steve allarga con le mani i bordi e l’immagine esplode in pieno formato mentre lui corre con il suo skateboard sulle note di “Wonderwall” degli Oasis. Si sente tutta la libertà che il ragazzo invoca, per sé e per la madre e per Kyla. Quell’apertura, però, è solo un’illusione. È la dimensione del sogno, l’unica in cui l’occhio può davvero spalancarsi. Il mondo che questo Quebec appena futuribile mostra non va oltre un rettangolo che chiude via tutto quello che è intorno, e lascia soli.
Accantonando la centralità delle tematiche omosessuali che fino a questo momento avevano caratterizzato i suoi film, Xavier Dolan sembra tornare all’origine del suo cinema, soffermandosi sul rapporto madre-figlio come già nel semi autobiografico J’ai tué ma mère. Lì, a muovere il protagonista Hubert era il desiderio di liberarsi dalla madre troppo oppressiva (che era interpretata dalla stessa attrice che fa Die, Anne Dorval). In Mommy, invece, è una madre che sente il legame come opprimente e impossibile. Tra Steve e Die c’è Kyla, che funziona come fulcro di equilibrio tra i due, amica per Diane, educatrice per Steve. Quello che si delinea è una specie di triangolo di tensione sentimentale. È il supporto silenzioso di un rapporto impossibile e allo stesso tempo la rappresentazione di una fuga possibile, e di una realtà nuova.
(Mommy, di Xavier Dolan, 2014, drammatico, 138’)
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