“La teoria del tutto” di James Marsh
La vita di Jane e Stephen Hawking nel film candidato a cinque premi Oscar
di Francesco Vannutelli / 17 gennaio 2015
Università di Cambridge, 1963. Stephen è uno studente di fisica brillante e indisciplinato che passa le sue serate tra birre bevute in eccesso, chiacchierate con gli amici e feste. È a una di queste feste che incontra Jane, studentessa di letteratura francese e spagnola. Non avrebbero niente in comune, all’apparenza, dai percorsi di studio al rapporto con la religione – ateo lui, «C di I», chiesa di Inghilterra, lei –, eppure si piacciono, e iniziano a frequentarsi. C’è il ballo, e lui la invita anche se non balla, si baciano, si mettono insieme. Un giorno Stephen cade andando a lezione, sembra niente, però il medico che lo visita scopre altro: ha la malattia del motoneurone, la sindrome di Lou Gehrig, per chiamarla con il nome del giocatore di baseball che suo malgrado l’ha resa famosa. In sostanza il suo corpo smetterà gradualmente di rispondergli, fino alla morte. Tempo stimato due anni. Stephen si proietta nella depressione più nera, e sarà Jane a scuoterlo, a fargli capire che quel poco tempo che resta lei lo vuole passare con lui, accada quello che deve accadere. E accadrà che i due anni diventeranno tre, poi cinque, poi dieci, poi venti, e ancora durano, e arriverà la laurea, e il matrimonio, e il dottorato, e tre figli, e la fama internazionale, e l’ingresso dell’ordine dei Companions of Honour del Regno Unito, incontrando la regina Elisabetta.
Stephen è Stephen Hawking, astrofisico di fama internazionale, autore di un bestseller come Dal big bang ai buchi neri. Una breve storia del tempo che ha aperto le inaccessibili porte della comprensione della fisica al grande pubblico e di alcune delle teorie alla base delle principali ricerche scientifiche contemporanee. Jane è la sua prima moglie autrice del libro autobiografico Verso l’infinito da cui è partito lo sceneggiatore Anthony McCarten per costruire La teoria del tutto, bio-pic di coppia diretto da James Marsh candidato a cinque premi Oscar tra cui miglior film.
C’è un momento di svolta nello stile narrativo di La teoria del tutto e coincide con la discussione della tesi di dottorato di Stephen e il suo ingresso ufficiale tra i grandi dell’astrofisica mondiale. Nel momento esatto in cui le teorie del giovane Hawking arrivano a scuotere il mondo scientifico, James Marsh decide di smettere di seguire la sua vita accademica per spostare l’attenzione sul rapporto con Jane e la nascita della loro famiglia, con tutte le difficoltà collegate alla malattia.
Se da un lato è una scelta inevitabile per aggirare la mostra becera del corpo di Hawking in disfacimento o l’esposizione di concetti scientifici troppo complessi per essere compresi dal pubblico – e probabilmente anche solo per essere mostrati in un prodotto di finzione (Marsh si limita a immaginare i momenti delle intuizioni che arrivano dal quotidiano, e un po’ gioca a fare Godard quando aggiunge il latte al caffé) –, dall’altro l’attenzione alla dimensione familiare finisce per rendere La teoria del tutto un film sentimentale con toni da commedia piuttosto convenzionale, in cui l’unica particolarità è data dalla malattia.
Marsh e McCarten si sforzano di trovare un implicito legame tra le formulazioni teoriche e la vita privata, suggerendo come la visione del tempo, centrale in tutti gli studi di Hawking, muti con l’evoluzione del rapporto con la malattia e con la moglie, con l’apertura dell’orizzonte degli eventi che il non precipitare della malattia apre ogni volta di più e le infinite gioie, sempre più inaspettate, che continuano ad arrivare. Pure troppe, visto che c’è una saturazione di buoni sentimenti.
D’altro canto, però, è nella incredibile interpretazione del quotidiano della famiglia Hawking che La teoria del tutto trova la sua vera forza. La dimensione domestica dell’incredibile Stephen di Eddie Redmayne (meritatissima nomination all’Oscar, e, dopo la vittoria del Golden Globe, grande favorito per il premio) è quella in cui viene fuori tutto il lavoro di trasformazione. Non solo, la progressione graduale della malattia si accompagna a una crescita esponenziale del talento impiegato. Bastano le sopracciglia e il movimento delle labbra, basta la passività con cui affida il corpo agli altri per far capire tutto quello che c’è da capire. Non si vedeva un simile lavoro dai tempi di Daniel Day Lewis in Il mio piede sinistro. Accanto a Redmayne, la Jane di Felicity Jones (anche lei candidata) è una pietra vestita di seta, dall’apparenza fragile e delicata, dalla risoluzione incrollabile.
È l’interazione tra i due, il contraltare posato di Jane all’intelligenza brillante di Hawking (perché La teoria del tutto è un film in cui si ride, anche), il contrasto sereno tra il razionalismo scientifico e l’affidamento fideistico, a creare vera energia.
(La teoria del tutto, di James Marsh, 2015, biografico/drammatico, 123’)
LA CRITICA
Attori straordinari per una storia straordinaria. Felicity Jones e, soprattutto, Eddie Redmayne diventano i coniugi Hawking per raccontare la vita privata di uno dei più importanti scienziati di oggi. Peccato solo che il regista James Marsh abbia scelto di guardare solo alla vita privata, senza fare niente per distinguere La teoria del tutto dalla più comune delle commedie sentimentali.
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