“L’ambasciata di Cambogia” di Zadie Smith
Una storia londinese di vite metropolitane, di solitudine e di piccoli piaceri
di Giulia Usai / 23 aprile 2015
Verrebbe da pensare che L’ambasciata di Cambogia (Mondadori, 2015) sia un libro incompleto, in qualche modo. Lo spessore è sottile, quasi un opuscolo, e la storia della protagonista viene raccontata da una prospettiva che galleggia in superficie, senza troppo affondare, lasciando nel lettore curiosità irrisolte. Un po’ come osservare la realtà da una fessura: il campo visivo è limitato, parziale, e ruotando la propria posizione si arriva a cogliere un nuovo spicchio di spazio perdendo di vista l’angolo precedente.
Eppure, in quest’opera volutamente impalpabile, sfiorare le vicende senza davvero addentrarcisi è un atto di delineamento realistico per un romanzo sulla metropoli contemporanea. Vite che passano davanti, istantanee di quotidianità colte da una finestra aperta su un autobus in corsa, rumore di passi dei vicini al piano di sopra delle cui esistenze non intuiamo che dettagli slegati.
La storia di Fatou ci sfiora come quella di un passeggero che osserviamo di fronte a noi in metro: ascoltando una sua conversazione telefonica, concentrandoci sui particolari del suo viso, indovinandone altri sulla sua persona, non arriviamo comunque ad averne un’idea completa, e le incognite sulle possibili evoluzioni del suo destino aleggiano sul sedile vuoto dopo il suo congedo dall’umanità stipata dentro il vagone.
Zadie Smith distilla questa sensazione di ineffabilità in una metafora delicatissima: la traiettoria del volano del badminton osservabile al di sopra del muro di cinta dell’ambasciata di Cambogia. Ogni lunedì la giovane Fatou, domestica al servizio della famiglia Derawal, prima di sfruttare gli ingressi omaggio per la piscina dei propri datori di lavoro si incanta a osservare il movimento altalenante al di là della recinzione dell’ambasciata, situata per chissà quale ragione nel quartiere periferico londinese di Willesden, tra abitazioni modeste della periferia. Chi stia impugnando le racchette rimane un mistero, così come gli altri elementi dello spazio recintato, e resta solo il volano in sospensione a suggerire cosa avvenga oltre la parete.
Allo stesso modo su Fatou qualcosa sappiamo, ma non tutto. Sappiamo quello che pensa, quando si chiede se la sua condizione di lavoro sia eticamente accettabile, sappiamo che ama nuotare nella penombra e avere lunghe conversazioni con il suo amico Andrew, ma altri particolari ci sfuggono, minuzie necessarie a completare il suo personaggio, rendercelo familiare. Passato e futuro della protagonista, all’inizio come alla fine di questo romanzo, restano indefiniti. Eppure, nonostante la fugacità, l’incontro con Fatou lascia un gusto ottimista nel lettore, e lo convince a fare il tifo per una ragazza che incrocia per qualche ora, ma resta distante, e presto sparisce rituffandosi nella folla urbana.
(Zadie Smith, L’ambasciata di Cambogia, trad. di S. Pareschi, Mondadori, 2015, pp. 70, euro 10)
LA CRITICA
Un racconto con un ricercato senso di incompletezza, un obiettivo puntato su una protagonista altrimenti invisibile e una riflessione pacata e non polemica sugli squilibri sociali. La narrativa di Zadie Smith distillata in formato sottile.
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