“The Magic Whip” Dei Blur
Un disco per chi ama sfogliare vecchie immagini sbiadite dal tempo, senza pretesa d’emozioni forti
di Valerio Torreggiani / 25 maggio 2015
Dodici anni sono passati da Think Tank (Food/EMI, 2003), ultima fatica in studio dei Blur. Era l’anno 2003 e da quel momento la diaspora dei camaleonti per eccellenza del britpop ha prodotto i risultati più strani e, per molti aspetti, decisamente inattesi. Dal rock lo-fi di Graham Coxon al funambolico progetto Gorillaz, fino ad arrivare all’intima intensità del recentissimo Everyday Robots (Parlophone, 2014) di Damon Albarn, quella passata non è stata certamente una decade perduta.
La regia di questo nuovo The Magic Whip (Sony, 2015) è affidata, stavolta, a Graham Coxon, affiancato nella produzione finale da Stephen Street, storico produttore dei maggiori successi della band londinese degli anni ’90. Damon Albarn rimane dietro le quinte, quasi con disinteresse, distratto forse dalla finalizzazione del suo lavoro solista uscito lo scorso anno. La distinzione appare infatti netta: The Magic Whip suona pienamente, nei pregi e nei difetti, come un album dei Blur.
Echi delle esperienze precedenti pervadono tuttavia ogni parte del lavoro. Numerose le dichiarazioni, esplicite e palesi, di ritrovata identità. “Lonesome Street, “I Broadcast” e “Go Out” sono brani che rimandano direttamente agli esordi, agli anni d’oro del britpop con accento cockney del triennio 1991-1994. Il limite tra il rimando e l’auto-citazione sterile è, però, qui davvero sottile. Un limite, c’è da dire, più volte valicato, come ad esempio nel caso di “I Broadcast”, che sembra condividere più che una semplice intenzione con “Parklife”. Da qui il passaggio verso territori musicali più coxoniani è naturale, quasi immediato, e pesca a piene mani in un bagaglio fatto di Kinks e Beatles, numi tutelari di quella grande esperienza di nostalgia collettiva che fu il britpop. Al fianco di questi ricordi giovanili, troviamo brani con una forma più matura, vicini alla malinconia solitaria dell’ultimo Albarn. Se “My Terracotta Heart” è una ballata di misteri e solitudini, “Ghost Ship” ruota circolare intorno ad un oscillante andamento chitarristico da aperitivo reggae mentre “Pyongyang” inquadra una lenta fotografia grandangolare della capitale nordcoreana.
Tirando le somme del lavoro quel che si percepisce è un insieme molto variegato di elementi, di stili e di intenzioni. Nulla di nuovo sottende a quella che sembra più una raccolta di ricordi che un disco vero e proprio. Una galleria di fotografie più o meno ingiallite dal tempo all’interno della quale, come spesso avviene, gli echi risultano più affascinanti delle voci che li producono.
LA CRITICA
Un ritorno che sa di passato e che, forse proprio per questo, non delude e non entusiasma. Una minestra riscaldata ha sempre i suoi lati positivi.
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