“La strage dei congiuntivi”
di Massimo Roscia
Cinque personaggi strampalati alla difesa della lingua italiana
di Chiara Gulino / 22 giugno 2015
Propst. Ora so a chi indirizzare i miei strali quando al lavoro sento un uso errato dei tempi verbali, uno stillicidio di “attimini”, un vilipendio della grammatica più elementare. L’italiano, questo sconosciuto!
Voi vi chiederete chi è Propst e cosa centra con La strage dei congiuntivi di Massimo Roscia (Exorma, 2014), prodotto emozionale avanzatissimo che colpisce al cuore gli amanti dell’italico idioma e delle sue regole.
Propst è un designer statunitense di interni d’ufficio, ideatore di quel democratico, libero e dinamico ambiente lavorativo che è l’open space: «Ma il sogno non si è mai avverato e la sua rivoluzione architettonica ha prodotto soltanto questi enormi stanzoni sovraffollati, rumorosi, maleodoranti e sgrammaticati».
Ora però bisogna che vi spieghi il modernissimo e originalissimo colpo di genio di Massimo Roscia.
Lo scrittore romano, in modo provocatorio e sferzante, si immagina una setta di cinque singolari personaggi, paladini dell’Ars grammatica, amanti del mondo classico e dei miti, stufi dei «reiterati oltraggi linguistici» perpetrati non soltanto da persone di bassa alfabetizzazione ma anche da chi dovrebbe magari amministrare la cultura come il politico di turno o chi svolge compiti divulgativi come conduttori televisivi o radiofonici, persino da preti, avvocati o insegnanti.
Si tratta di cinque personaggi improbabili, bizzarri, dal sapere sterminato che infarciscono il loro racconto di citazioni, rimandi e suggestioni di borgesiana memoria.
C’è l’indiscusso maestro Dionisio il Trace, al secolo Renato di Scitio, che utilizza una lingua arcaica e misterica, quasi iconostasi dal fascino ignoto. È lui a dare il via a una serie di omicidi dimostrativi per denunciare il generale imbarbarimento della cultura italiana perché «solo attraverso la morte possiamo raggiungere il potere, il controllo, il dominio, l’affermazione della superiorità e, quindi, la possibilità e il titolo per ricominciare da zero, con la creazione di una società nuova, più onesta, più giusta, più pura, una società finalmente capace di rappresentare la sintassi».
Il primo a lasciarci le penne è un assessore alla cultura di basso rango e di infima ignoranza dalla «sconsiderata favella», Gross Donkey, che in una conferenza convocata «a doc», in cui darà tra l’altro l’annuncio della chiusura della biblioteca comunale, commette i più efferati crimini linguistici: «Raccapriccianti orrori fonetici, irripetibili aberrazioni lessicali, presunte qualità indiscriminatamente espresse al massimo grado da quegli assurdi superlativi assoluti, così soverchi e cacofonici, che si riproducono per partenogenesi e sovraffollano fastidiosamente il periodo. Sadiche sevizie inflitte alla grammatica, dolorosi e reiterati oltraggi all’intelletto».
Ci sono poi il bibliotecario che assiste a questo scempio, Liang Zidian soprannominato Partenio di Nicea e un analista sensoriale dall’olfatto ipersensibile e sviluppato che ricorda il Jean-Baptiste Grenoulle de Il profumo di Süskind. Quest’ultimo si unisce alla banda per ultimo dopo aver dato mostra della sua ira contro un uso sconsiderato del modo indicativo e per questo onorato del nome di Asclepiade di Nicea.
Eutichio Proclo è invece William Popgun, un dattiloscopista della polizia affetto da una grave forma di iperidrosi, nociva soprattutto per le persone a lui vicine.
Infine non poteva mancare un insegnante di letteratura, Eric Vermillon, detto Cratete di Mallo, sospeso però a tempo indeterminato per ‹‹fabbricazione di materie esplodenti››. A partire dall’omicidio dei suoi genitori soffre di schizofrenia bipolare che cerca di tenere a freno con la clorpromazina.
Con il pretesto della storia surreale in cui la nostra simpatia non può che andare a favore degli stragisti, Roscia denuncia il dilagare del «vomitevole verbalismo barocco, illogico e sgrammaticato» dei politicanti, la nascita fra i giovani di un «surrogato di lingua corrotta e imbarbarita, tristemente piatta e cacofonica, infarcita di volgarità, termini alloglotti e improbabili neologismi, una lingua incapace di rispettare le più elementari regole sintattiche» e soprattutto denuncia l’abuso del «soverchiante indicativo che soppianta il congiuntivo […] che […] non è un’inutile o aristocratica complicazione da eliminare».
E lo fa opponendo a questa ‹‹neolingua selvaggia che si sottrae alle leggi e ai controlli grammaticali››, una prosa di soppesata e voluta maniera dalla vivacità plurilinguistica e dal ritmo incalzante.
L’incanto è assicurato dalle altalene lessicali e dall’aura surreale di un noir scritto con intento provocatorio, divertente, funambolico e virtuosistico.
(Massimo Roscia, La strage dei congiuntivi, Exorma, 2014, pp. 321, euro 15,50)
LA CRITICA
Incrociando i punti di vista dei suoi singolari e folli personaggi, Roscia fa un’analisi impietosa e tranchant dei quotidiani maltrattamenti subiti dal nostro caro idioma.
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