“Babadook” di Jennifer Kent
Dall’Australia un horror che va oltre il genere
di Francesco Vannutelli / 14 luglio 2015
È una bella sorpresa Babadook, esordio al cinema della australiana Jennifer Kent, attrice e regista per la televisione. Sorpresa fino a un cero punto, poi, perché Babadook è già passato lo scorso anno al Sundance Film Festival colpendo molto i critici statunitensi e in patria si è aggiudicato tre AACTA (equivalenti più o meno agli Oscar) di una certa importanza: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. In Italia era già passato per il sempre attento Torino Film Festival. La distribuzione italiana ha deciso di relegarlo all’estate, confondendolo con i tanti horror che infestano le sale negli scampoli della stagione cinematografica, ma Babadook ha molto di più da dire rispetto a un normale film dell’orrore.
Amelia vive con il figlio di sette anni Samuel. Il marito, amatissimo, è morto in un incidente stradale mentre la portava in ospedale per partorire il loro unico figlio. Amelia è rimasta sola con un bambino che ha più di un problema: non si integra con i coetanei, è convinto di dover difendere la madre da qualsiasi pericolo e ogni notte si sveglia travolto da incubi di mostri che costringono la madre alla pattuglia quotidiana di sottoletti, armadi, stanzini per dimostrare che non c’è nessuna minaccia, da nessuna parte. Solo che una sera, nella libreria della sua cameretta, Samuel trova il libro di Mister Babadook che Amelia non ha mai visto prima. Racconta la storia di un mostro orribile che entra nelle case e non ne esce finché non uccide tutti. Ora la paura di Samuel ha un nome nuovo, anche perché dopo la scoperta del libro iniziano a succedere cose strane.
Messo così, Babadook può sembrare un normale horror da favola della buonanotte. Ha parecchi elementi del genere: una madre sola, un figlio “strano”, una casa in cui succede tutto quello che deve succedere. C’è anche la cantina piena di memorie e di segreti. La differenza, però, che mostra tutto il potenziale di Jennifer Kent, è nell’approccio psicologico alla questione della paura.
Tutto in Babadook sa di metafora, di simbolo, volendo pure di archetipo. Amelia è una donna troppo sola che non si è mai ricostruita dopo la morte del marito. Scriveva, e ha smesso di farlo per lavorare in un ospizio, ha uno spasimante, ma lo ignora. Vive solo per Samuel, per quanto sia complicato e per quanto alle volte non ce la faccia proprio a sopportarlo – in fondo, si mostra più affettuosa con il cane che con il figlio –, ed è perseguitata da un mal di denti che la tiene sveglia la notte insieme agli incubi del bambino.
La scoperta di Mister Babadook trasferisce le paure di Samuel alla madre. La paura del buio, dei mostri, diventa paura della solitudine e resa dei conti con il passato e con un lutto mai pienamente elaborato e lasciato lì a paralizzare la vita. Samuel non ha mai festeggiato il compleanno il giorno della sua nascita perché coincide con quello della morte del padre. Non ha mai potuto scendere liberamente in cantina perché lì ci sono le foto e le lettere del marito morto che Amelia conserva senza il coraggio di guardarle. La vita di madre e figlio non offre molto altro rispetto a scuola e lavoro, una sorella con figlia che sopportano Samuel a fatica, una vicina gentile sempre disponibile. Samuel e Amelia hanno solo la casa, in cui vivono chiusi in una quasi perenne oscurità, isolati dall’esterno e incapaci di vivere a pieno nel mondo di fuori, distanti da tutto quello che per gli altri è normale. L’arrivo del mostro rimette tutto in discussione.
Lontano dal sensazionalismo del cinema horror di oggi, dalla ricerca costante del balzo sulla sedia e dalla costruzione stereotipata della tensione, Babadook finisce per essere più un thriller psicologico, se non addirittura un dramma familiare virato al nero. Jessica Kent ha scritto e diretto partendo da un suo cortometraggio del 2005 (Monster, lo potete vedere sul suo canale vimeo) in cui è ancora più evidente il debito di suggestione che Babadook paga nei confronti dei grandi classici dell’espressionismo tedesco, nell’uso delle ombre e nella costruzione della realtà domestica (il corto è in bianco e nero, e quello aumenta notevolmente la suggestione).
Kent è riuscita a infilarsi all’interno di un genere, rispettandone i canoni e la struttura narrativa, finendo però per farne un film molto di più al di fuori del genere stesso. E non è una cosa da poco.
(Babadook, di Jennifer Kent, 2014, horror, 95’)
LA CRITICA
Babadook dell’esordiente australiana Jennifer Kent ha la capacità rara di collocarsi all’interno di un genere, l’horror, per riuscire poi ad andare oltre gli abituali confini del genere, arrivando a riflessioni e suggestioni di portata più ampia e profonda, continuando a stimolare le forme primordiali della paura.
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