“Everest” di Baltasar Kormàkur
La sfida alla montagna più alta del mondo
di Francesco Vannutelli / 25 settembre 2015
C’era molta attesa per Everest, il film di apertura della settantaduesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Attesa perché le ultime due edizioni del festival erano state aperte alla grande da film che in seguito si sarebbero affermati come dominatori della stagione quali Gravity di Alfonso Cuarón e Birdman di Iñarritu, che sarebbero arrivati a conquistare premi su premi fino ai rispettivi trionfi agli Oscar. Everest sulla carta aveva le caratteristiche per un terzo botto iniziale consecutivo: un grande cast, un grande budget e una storia di sicura presa sul pubblico, ma le attese non sono state rispettate.
Siamo nel maggio del 1996, da quattro anni le scalate sul monte Everest, la montagna più alta del mondo, sono diventate un affare turistico grazie a una serie di tour operator che addestrano e guidano comitive per raggiungere il tetto del mondo. Il neozelandese Rob Hall è stato il primo a fondare una società per l’arrampicata turistica, l’Adventures Consultants, poi ne sono seguite altre, dall’americana Mountain Madness, guidata da Scott Fischer, a gruppi taiwanesi e sudafricani. In qual maggio del ’96 erano tutte lì ai piedi della montagna, in un ingorgo che finì per costare la vita a otto persone, tra cui Rob e Scott, rivali in affari ma uniti dall’amore per la montagna che approcciavano con stili completamente diversi, rispettoso e calmo il primo, veloce e spericolato il secondo.
Quella raccontata da Everest di Baltasar Kormàkur è una storia vera che prende un po’ dalla cronaca e un po’ dal libro di Joe Krakauer Aria sottile, che partecipò a quella spedizione del 1996 per scrivere un reportage per una rivista specializzata. Il regista islandese ha preso la vicenda per farne una nuova declinazione di un tema classico e molto caro a Hollywood, quello della sfida dell’uomo contro la natura, della ricerca di ciò che è oltre il confine dell’umano attraverso il contatto con gli ambienti più ostili. Viene ripetuto più volte, in Everest: quello che proveranno gli avventurieri sulla montagna sarà puro dolore, pura sofferenza, perché superata un’altezza limite il loro corpo semplicemente inizierà a morire per le condizioni ambientali troppo ostili per la vita umana, tra aria rarefatta all’inverosimile e temperature troppo fredde per essere sopportate dal corpo. È lì, in quel brivido di morte, che si trova il vero godimento, più che nel raggiungere un posto in cui pochissimi nella storia dell’umanità sono arrivati.
La presenza della montagna e il pericolo che porta con sé per chi decide di sfidarla fanno da soli la prima parte di Everest, quella in cui gruppi si organizzano per la scalata in un campo base affollato come un villaggio vacanze. È qui che si costruiscono le storie, che si accumulano le trame, che si fanno i personaggi. Rob ha una moglie in Nuova Zelanda incinta che lo aspetta, Scott ha chiaramente un problema con l’alcol e un’esuberanza che lo porta oltre i propri limiti. C’è un postino ostinato che vuole arrivare in cima per qualcosa di più della sfida con se stesso, una giapponese a cui manca solo l’Everest per poter dire di aver scalato tutte le montagne più alte del mondo, e un politico texano arrogante che è partito nonostante le paure della moglie. Ognuno ha un motivo per essere lì, ma lo tiene per sé. Krakauer – interpretato da Michael Kelly, già visto in House of Cards – tenta di arrivare ai motivi profondi della scelta di ognuno, ma tutto sommato non importa, perché in Everest lo spazio per l’introspezione è limitato, quello che conta è l’azione e l’emozione.
È proprio sulla leva emotiva che il film di Kormàkur, sceneggiato da William Nicholson (Il gladiatore, Unbroken) e Simon Beaufoy (127 ore, The Millionarie), trova i momenti di maggiore debolezza. Il tentativo di conciliare il titanismo della sfida uomo-natura con il racconto collettivo di un film catastrofico non riesce. La costruzione del dramma annunciato si disperde tra i vari personaggi e le loro vite, ferme a quello che è poco più di un abbozzo non portato avanti. Accanto a quelli che sono i due protagonisti principali – Rob, interpretato dal lanciatissimo Jason Clarke che ormai è ovunque (Terminator Genisys e la saga del Pianeta delle scimmie), e il texano Beck a cui dà corpo Josh Brolin –appaiono e spariscono una moltitudine di personaggi che hanno rilevanza intermittente a seconda delle esigenze narrative. Insieme ai personaggi, compaiono di sfuggita alcuni temi che avrebbero meritato maggiore spazio, come lo sfruttamento commerciale di un luogo unico al mondo, la spettacolarizzazione del rischio, i modi diversi di vivere la montagna e la natura. Alla fine c’è troppo, e questo troppo non riesce a creare il coinvolgimento emotivo sperato e resta anche il sospetto di aver unito tanti attori di prestigio (ci sono anche Samantha Morton, Keira Knightley, Robin Wright) e non aver saputo realmente come sfruttarli.
È probabile che Kormàkur e i suoi pensassero che bastasse la montagna e i suoi paesaggi – è stato girato un po’ in Nepal, un po’ a Cinecittà, nei Pinewood Studios e nella Val Senales in Trentino – per fare il film. Ci voleva qualcosa di più, come ad esempio una sceneggiatura.
(Everest, di Baltasar Kormàkur, 2015, azione, 121’)
LA CRITICA
Suggestione senza emozione, questo comunica Everest, un film freddo e non solo per la montagna più alta del mondo del titolo. Cercando di unire la sfida dell’uomo contro la natura alla coralità di un film catastrofico, l’islandese Kormàkur finisce per perdere la via e cadere nei crepacci lasciati aperti da una sceneggiatura inclinata verso il dramma e incapace di trasmettere empatia. Rimangono delle splendide sequenze nella prima parte.
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