“Il giorno perduto”
di Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto

Racconto di un viaggio all'Heysel, tra speranza e disillusione

di / 24 settembre 2015

«Tuttavia il corpo non riesce a liberarsi del ricordo. È una rete, una ventosa, il ricordo, prende i muscoli le ossa il respiro. Tu lo mantieni presente e lui ti mantiene vivo. A volte, tu e il tuo ricordo siete il futuro».

29 maggio 1985, stadio Heysel di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool: doveva essere un momento di festa, di attesa, di tensione sportiva. Si è trasformato in tragedia. Alle 19.20 un gruppo di inglesi rompe le recinzioni che separano i settori; è il panico: sotto il peso della carica inglese, la tribuna crolla su se stessa. Le vittime saranno trentanove: «Trentadue italiani, quattro belgi, due francesi, un nordirlandese. E seicento i feriti. Intorno tutto è infinito. Voci suoni colori deflagrano e raggiungono il silenzio. Sono le 21.40. L’assurdo è così banale che le squadre entrano in campo».

Questo è Il giorno perduto (66thand2nd, 2015) che Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto raccontano in un romanzo a voci alternate dando vita, pensieri e parole il primo all’inglese Christy soprannominato Monk per la sua vita solitaria eccezion fatta per la Kop, la mitica curva del Liverpool dove però «nessuno ti dedica troppa attenzione, al massimo un’occhiata di sbieco, ogni discorso è rivolto al campo», l’altro a Domenico detto il Mitch e ai suoi amici Angelo, Charlie e Miranda sfegatati tifosi juventini tutti provenienti da Rueglio, provincia di Torino.

La narrazione è costruita intorno a loro, al viaggio che li porterà a Bruxelles, alla prospettiva della propria vita che entrambi, il Mitch e Christie, vogliono cambiare in meglio. La partita di calcio, le formazioni, i tifosi, la goliardia del gruppo di Rueglio, la solitudine dell’inglese compongono lo scenario emotivo e il sottofondo di questa rappresentazione. Per i due «questa è l’avventura da cui ripartire», il momento in cui ritrovare se stessi. L’inglese con un passato ricolmo di frustrazioni e difficoltà a causa dell’abbandono della madre in giovane età e della malattia terminale del padre da buttare alle spalle, l’italiano alla ricerca di una nuova vita non vincolata alle aspettative del defunto padre. I vite dei due si sfioreranno inconsapevolmente per un momento, un attimo che rimarrà per sempre impresso nella memoria: una partita di “calcio” con una lattina di birra nel cuore della capitale belga.

Il destino tuttavia non ripagherà le attese, non in quella giornata, che rappresenterà per sempre, per loro e per tutti i ragazzi di quella generazione, la fine dell’adolescenza e la perdita dell’innocenza perché «se qualcuno vi racconta che gli anni Ottanta sono stati felici non credetegli. Sono stati terribili. Per un paio di generazioni in tutta Europa hanno rappresentato la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’illusione».

I capitoli finali del libro sono dedicati alla tragedia, e sono costituiti di molte pagine lasciate in bianco, lunghi silenzi intermezzati solo dai nomi delle vittime e da brevissime frasi come se solo il tacere potesse dare tributo, forma e memoria a coloro che quel giorno persero la vita.

Cartwright e Favetto con una scrittura potente ed emotiva, legando due storie apparentemente distanti, riescono perfettamente a compiere quello che è uno dei miracoli della letteratura: dare voce a un’intera generazione, lasciando ai posteri il monito di non dimenticare.

 

(Anthony Cartwright/Gian Luca Favetto, Il giorno perduto, trad. di Daniele Petruccioli, 66thand2nd, 2015, pp. 336, euro 18)

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LA CRITICA

Un romanzo “necessario”.

VOTO

7/10

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