“Il bambino nella neve”
di Wlodek Goldkorn

La voce umana della Storia

di / 5 luglio 2016

Il bambino nella neve, copertina su Flanerí

È un concerto per voce sola, per una voce che vuole tornare nel suo passato, in una terra dalla quale la sua infanzia si era nascosta per fuggire a qualcosa d’inspiegabile, osceno, pericoloso. Wlodek Goldkorn, giornalista e scrittore, sembra quasi sdoppiare la sua voce per usare un tono distaccato, quasi da cronista: è in questo modo che si affaccia sul baratro della Storia provocato dallo smottamento delirante di un nazismo che ha travolto la sua vita.

Perché Il bambino nella neve (Feltrinelli, 2016) non è soltanto un titolo forte, ma l’episodio che apre le pagine di questo libro: la zia Chaitele, cugina del padre, ebrea, durante la seconda guerra mondiale si nasconde nei boschi quando arrivano i tedeschi e lei abbandona nella neve un bambino. E quel bambino è proprio l’autore, cresciuto nella Polonia del dopoguerra da due genitori comunisti ed ebrei, che scappano in Russia dopo che la stessa Polonia scopre di essere antisemita a sinistra. Più che altro una storia che sembra una storia apolide, irregolare che ben rispecchia la struttura del libro: saggio, pamphlet, racconto, storia, romanzo, pezzo di cronaca, riflessione, romanzo on the road (struggenti le pagine del suo viaggio, a ritroso anche nel tempo, dentro i campi di sterminio che descrive come un visitatore informato).

Quello che Wlodek riesce a raggiungere è un risultato molto importante: se da un punto di vista letterario, questo libro s’inserisce nella narrativa di Primo Levi e di Eli Wiesenthal, da un punto di vista meramente narrativo l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un monologo teatrale. È per questo motivo che la voce dell’autore bascula tra la spiegazione di quelli che sono i risultati della Shoah e l’inevitabile distacco che ne segue. In questo senso Il bambino nella neve – a leggerlo – rivela un effetto straniante, di quelli che un signore come Bertolt Brecht avrebbe richiesto per rappresentare un’odissea del genere. Un’odissea umana, storica e letteraria.

Ogni pagina, ogni riga di questo libro, ogni virgola che Goldkorn ha scelto di sistemare in Il bambino nella neve è ponderata, voluta e scelta con determinazione. Una scelta oggettiva, dettata da un’urgenza reale, quella di una sete di dolcezza che cosparge le pagine di questo volume.

«La memoria dei ghetti e dei campi teatro della Shoah non serve a niente se non a promuovere e difendere, ovunque e nel concreto, le istanze di emancipazione. È comodo pensare di essere vittime e poi pranzare in famiglia, leggere libri, scrivere sui giornali, fare viaggi esotici. Non sono vittima, ma soggetto della storia», dice Goldkorn. E a sentirla bene la sua è una voce potente perché delicata.

 

(Wlodek Goldkorn, Il bambino nella neve, trad. di N. De Benedetti, Feltrinelli, 2016, pp. 202, euro 16)

 

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LA CRITICA

In questo libro si uniscono due rette che sembrano parallele: la Storia e la vicenda personale. L’autore usa una scrittura che tuona e che fa riflettere ma che alla fine sparge solo dolcezza. È un libro sulla memoria che «è un vuoto da riempire».

VOTO

9/10

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