“Like A Rolling Stone” di Bob Dylan
51 anni fa veniva pubblicato il capolavoro di Dylan
di Giada Ferraglioni / 20 luglio 2016
Il 20 luglio del 1965 l’intera eredità musicale americana veniva presa e lanciata come un sasso sui vetri delle camere e delle auto di tutto il paese. Un fiume in piena stava penetrando nei varchi aperti rimescolando violentemente le carte in tavola e spazzando via i resti di una sbiadita visione del mondo. Bob Dylan aveva creato “Like A Rolling Stone”.
“Like a Rolling Stone”, singolo estratto dall’album Higway 61 Revisited, è semplicemente impossibile. È una sintesi perfetta tra passato e futuro che si manifesta in un’esplosione a cielo aperto. È la cometa del rock degli anni sessanta, l’astro guida su una strada che non porta a casa, che ha per essenza il cammino e non l’arrivo. Nel brano c’è la polvere delle arterie principali degli Stati Uniti che collegano l’estremo nord all’estremo sud; c’è tutto il blues del Mississippi River, quello intenso di Chicago e quello squarciante di Memphis; c’è l’eclettismo culturale esplorato dal Wyoming alla Lousiana, con Duluth per epicentro.
Tutta la mistica esperienza attraverso la Blues Highway è srotolata lungo le nove tracce di Highway 61 Revisited, incontenibile seguito di Bringing It All Back Home registrato pochi mesi prima, e profezia del successivo Blonde on Blonde, simbolo definitivo di tutta la furente gloria dylaniana che ormai era arrivata a permeare qualsiasi espressione di rock’n’roll.
“Like a Rolling Stone” è la raccolta della semina, è la gravante eredità del folk e del blues inserita nella grande ricetta rock degli anni Sessanta. Tutti i generi cullati nell’umida e fertile terra americana vengono caricati in un unico sacco sulle spalle di Dylan, pronto a distribuire al mondo i suoi frutti maturi.
La canzone iniziò a prendere forma il 15 giugno del 1965 negli studi della Columbia Records, quando Dylan cominciò a lavorare all’album con Mike Bloomfield alla chitarra (coprotagonista un mese dopo al Folk Festival di Newport, lo storico live della svolta elettrica), Al Kooper all’organo, Paul Griffin al piano, Joseph Macho al basso, Bobby Gregg alla batteria e Bruce Langhorne al tamburello.
Il testo, altro fondamentale aspetto della rivoluzione dylaniana (mai prima d’ora una lirica aveva avuto così tanta importanza all’interno di un brano rock), è composto da quattro strofe e un ritornello, ma non è che una spremuta finale di un lungo lavoro. Il testo originale era lungo più di venti pagine, composte di getto in aereo e destinate al progetto del romanzo Tarantula. «Fu come un lungo conato di vomito. Tutto il mio persistente odio era talmente diretto da essere sincero. Alla fine non era odio. Vendetta era il termine più appropriato. Non avevo scritto niente di simile prima , e all’improvviso compresi che era quello che dovevo fare. Dopo averla scritta non mi interessava più scrivere un romanzo o un dramma. Perché era una categoria completamente nuova. Voglio dire che nessuno prima aveva veramente mai scritto delle canzoni».
Tutta la potenza degli strumenti elettrici alimentava come una bufera il fuoco delle ciniche figure retoriche del Menestrello. Per la prima volta, letteratura e rock’n’roll si trovavano a condurre insieme – e in perfetta armonia – un valzer di sei minuti e dieci secondi. Da quel momento in poi le cose non sarebbero state più le stesse. Se alcune schiere di appassionati del folk gridarono al tradimento, i migliori artisti del genere accolsero come una rivelazione il messaggio lanciato dal brano – e da tutto Highway 61 Revisited.
Nemmeno a dirlo, i Beatles (che avevano già incontrato Dylan due anni prima e al quale dovevano – tra le altre cose – l’iniziazione alle droghe) furono tra i primi a capire la portata del cambiamento inaugurato dal cantautore americano, e, a dicembre dello stesso anno, regalarono al mondo Rubber Soul. “Nowhere Man”e “Norwegian Wood”, due delle tracce più imponenti dell’album, incarnavano il benedicite dei Fab Four all’evoluzione incontenibile della musica verso il decennio successivo.
Dylan aveva ammonito e risvegliato le anime dell’aristocrazia del rock. Probabilmente per rendere giustizia a un brano del genere sarebbe necessario un libro intero anziché poche righe. La verità è, però, che nessuno può spiegare a parole “Like a Rolling Stone” e tutto il lavoro di Dylan di quegli anni; potremmo fornire dettagli su dettagli del come e del quando, potremmo trascrivere in parafrasi i versi e isolare tutti gli strumenti per studiarne le più intricate sfumature, ma non arriveremmo ad esaurire nemmeno la metà dell’essenza del brano. «Quello che faccio adesso è tutta un’altra cosa. Non suoniamo rock, non è un sound duro. Certa gente lo chiama folk-rock, il che è un termine piuttosto semplicistico, buono forse per far vendere più dischi; per quel che mi riguarda, non so proprio di cosa si tratti, so solo che non può essere chiamato folk–rock. Rappresenta tutto un modo di fare le cose». Cosa intende dire lo si capisce senza dover aggiungere nient’altro a quello che ci ha già detto Dylan stesso attraverso la sua lirica. “Like A Rolling Stone” è guardarsi e annuire in silenzio; è la risposta ad una domanda che avevamo smesso di porci: «How does it feel?», Come ci si sente?
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