“Pink Floyd a Pompei” di The Lunatics
La storia di un film leggendario
di Michele Lupo / 27 gennaio 2017
Non sorprende leggere in una recentissima intervista a Adrian Maben che «se c’è un band con la quale vorrei girare un film sarebbero i Radiohead». Perché nel 1971 il regista scozzese filmò Pink Floyd – Live at Pompeii 1971, e dopo quasi mezzo secolo evidentemente gli è rimasto il buon gusto di riconoscere cosa, almeno nel mondo che, genericamente, continuiamo a definire rock appartiene all’arte e non alla maniera o al mero intrattenimento. Nelle scorse settimane il collettivo The Lunatics, già autore di altri volumi sul gruppo di Ummagumma, di questo film ha raccontato l’intera vicenda, Pink Floyd a Pompei – una storia fuori dal tempo (Giunti, 2016). Maben ne ha firmato la prefazione.
Il libro – un volume patchwork di capitoli fatti di interviste, testimonianze, minibiografie, racconto della costruzione del film, del suo destino cinematografico, esplorazioni della musica del gruppo e più di un centinaio di fotografie – inizia presentando il regista, illustrandone la biografia e la concezione di fondo del lavoro. Cultore del film d’arte da sempre, Maben riuscì nell’intento di convincere Gilmour e gli altri – e il loro manager – a volare fino alla città campana per un’impresa piena di incognite, nonostante la meticolosa preparazione del regista. Il racconto di tutta l’avventura è assai gustoso. Perché sembrava assai difficile, a partire dai permessi per l’uso dell’anfiteatro, e i primi giorni tutto fu più volte sul punto di naufragare (il problema principale era la corrente elettrica, e le riprese alle solfatare di Pozzuoli nacquero dal bisogno di Maden di traccheggiare con i quattro musicisti nell’attesa che si risolvessero i problemi nell’anfiteatro). Il racconto di quei giorni si avvale anche del ricordo degli abitanti di Pompei, giovani curiosi che fecero i guardiani alla strumentazione, nonché personale dell’albergo (immaginabile la sorpresa dei locali davanti alla scena di quattro capelloni che s’ingozzano di prelibatezze culinarie indigene).
L’obiettivo di Maben era fare un film anti-Woodstock (non solo immagine presto archetipa di un certo mondo ma anche matrice dei film rock: adunate di ascoltatori – per lo più fricchettoni – in trance e rockstar altrettanto eccitate sul palco). Qui invece si voleva creare – e vi si riuscì benissimo – tutt’altra atmosfera; «ciò che contava era la musica e il silenzio» – il suono Floyd ne venne esaltato. Echoes, il caso di dire, la suite che Maben nemmeno ancora conosceva risultò la musica ideale per i muri dell’anfiteatro – la cosa più impegnativa fu la sincronizzazione della musica con le immagini. Nonostante i piani saltati all’ultimo momento – l’attrezzatura arrivata solo in parte, la scaletta dei brani modificata rispetto alle aspettative del regista, processioni religiose che bloccavano qualsiasi movimento, la quantità di girato insufficiente che costrinse tutti a un supplemento di lavoro a Parigi e a Abbey Road – nonostante tutto questo, al film riuscì proprio quell’aura irripetibile che ognuno sa. Basta rivederlo, ancora una volta.
(The Lunatics, Pink Floyd a Pompei – Una storia fuori dal tempo, Giunti, 2016, pp. 192, euro 25)
LA CRITICA
Ricostruzione accurata di un’avventura a metà fra musica e cinema, di una pellicola cult che ha portato il rock fuori dalle angustie del genere e ne ha fatto arte.
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