“Crak-Up” dei Fleet Foxes
Il ritorno in studio della band di Pecknold e Skjelset
di Giada Ferraglioni / 23 giugno 2017
Se pensavate che Father John Misty, ex J. Tillman, fosse l’unico membro tormentato dei Fleex Foxes, avevate sottovalutato le Volpi di Phoenix. Se pensavate che i Fleet Foxes non sarebbero sopravvissuti alla svolta accademica di Robin Pecknold, beh, vi eravate sbagliati di nuovo. Tra ritorni alla Columbia University, progetti artistici indipendenti e silenzio stampa di ben sei anni proprio all’apice del successo, i Fleet Foxes hanno fatto ritorno negli studi della SubPop sfornando uno degli album più ingarbugliati e cervellotici che sentirete quest’estate, Crack-Up.
Benché l’amore di Pecknold e Skyler Skjelset (i due fondatori della band) per Crosby, Stills & Nash (& Young) non sia stato pulito via del tutto dalle armonie e dalle atmosfere, l’effetto finale del lavoro è diverso dal rassicurante Best Folk Album 2012, Helplessness Blues. Non che il precedente lavoro spiccasse davvero per immediatezza, ma con Crak-Up sembra di trovarsi di fronte più a un progetto sperimentale di un PhD che a un disco concept neofolk e neohippie lavorato a puntino- come era successo invece con i tre precedenti, EP compreso. Già il titolo dell’album, ripreso da una raccolta di saggi di Francis Scott Fitzgerald, non promette hit estive da bagnasciuga – a loro rischio e pericolo. La radicalizzazione, in Crack-Up, dell’onirismo tipicamente fleexfoxiano spalanca le porte di ciascuna delle undici tracce e dilata le tempistiche dei brani: il risultato è un lungo trip omerico fatto di intrecci strumentali e vocalismi sirenici.
Per chiudere l’ascolto ci vuole, però, una bella dose di pazienza, oltre a un bagaglio pregresso di fiducia verso un gruppo che, sicuramente, la musica la sa comporre. Dopo il titolo Crak-Up, anche “I Am All That I Need/ Arroyo Seco/ Thumbprint Scar”, brano di sei minuti e mezzo che apre l’album, è tutto un programma di intenti. E giù via per i richiami marini di “Cassius,-”, gli arpeggi di “Kept Woman”, e per la preferita di Father John, “I Should See Memphis” , che insieme a “If You Need to, Keep Time On Me” è forse una delle tracce più vicine al modo di fare dei Fleet Foxes.
Al centro del disco esplode uno dei brani migliori, “Third Of May/ Odaigahara”, dedicato al co-fondatore Skjelset (nato il tre maggio), con i bassi protagonisti quasi quanto le imprescindibili architetture acustiche.
Accenni di mandolino e di tamburello tra gli ampi spazi delle orchestrate tentano di smarrire chi ascolta, e forse a volte ci riescono. Ma nonostante tutto, vagare confusi tra le arie di Crack-Up può rivelarsi interessante. Lo sarà, quantomeno, per quegli irriducibili che cercano qualcosa di concettuale anche con trentacinque gradi all’ombra.
(Crack-Up, Fleet Foxes, New Folk)
LA CRITICA
Lungo e intricato, l’ascolto di Crack-Up non è facile a dirsi né a farsi. Ma l’abilità compositiva della band di Phoenix ha di nuovo da dirci qualcosa per cui vale la pena impegnarsi.
Comments