L’incredibile Ugo
L’eredità culturale di Paolo Villaggio
di Francesco Vannutelli / 4 luglio 2017
La scomparsa di Paolo Villaggio dello scorso 3 luglio lascia la cultura italiana orfana di una delle sue più riuscite incarnazioni. Il ragionier Ugo Fantozzi, creatura letteraria e cinematografica dell’attore genovese, è stata una delle più grandi rappresentazioni del Paese di tutti i tempi, capace di ridefinire l’immaginario collettivo come uno specchio deformante, spietato e quanto mai veritiero.
Nei vari ricordi di Villaggio che hanno invaso nelle ultime ore social network, giornali e tv, si ricorda anche l’attore che ha lavorato con Monicelli, Fellini, Olmi, Ferreri, i premi, l’amicizia con De André. Come se il solo Fantozzi non fosse sufficiente a dare dignità alla memoria, come se la miriade di dettagli della serie – il tono tragico della voce fuori campo, i congiuntivi stravolti, gli accenti svedesi – entrati nel linguaggio di tutti i giorni non fossero sufficienti a sancirne lo status di grandissimo.
Che Fantozzi sia stato quanto di più italiano ci sia mai stato in Italia è sotto gli occhi tutti. Il servilismo, la vigliaccheria, la deferenza nei confronti del potere sono le caratteristiche che hanno reso il ragionier Ugo il prototipo dell’italiano. Fantozzi è la cultura popolare italiana nella sua forma più pura, l’immagine esatta del paese a cavallo tra gli anni Sessanta e gli Ottanta.
Fedele al ruolo di anti-intellettuale che ha sempre rivendicato per sé, Villaggio ha creato un prodotto culturale di massa che più di qualsiasi altro tentativo più alto è riuscito a raccontare la nazione.
Quando Paolo Villaggio fece nascere il proprio personaggio alla fine degli anni Sessanta, raccontandone le peripezie in una rubrica fissa sul settimanale L’Europeo prima e nei libri poi, probabilmente non immaginava fino in fondo il livello iconico che la sua creazione avrebbe raggiunto. Fantozzi si è imposto nell’arco di un decennio come l’archetipo della classe media nazionale per poi rimanere tra le maschere eterne della cultura popolare. Vittima designata del potere, dei colleghi e di se stesso, il ragioniere è diventato sinonimo di sfiga, vigliaccheria, ingiustizie, sofferenza e nonostante tutto dignità.
È Fantozzi stesso a dare la migliore descrizione possibile di sé in Fantozzi contro tutti (1980, terzo film della serie, l’unico co-diretto da Villaggio insieme a Neri Parenti). Parlando con la moglie Pina dopo l’ennesima ingiustizia subita si definisce «indistruttibile». «Perché io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande perditore di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, otto – dico otto! – campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d’acquisto della lira, fiducia in chi mi governa. E la testa per un mostr… per una donna come te». In questa frase è sintetizzata l’essenza del simbolo fantozziano, agli antipodi rispetto a quello incarnato da Alberto Sordi, dell’arrogante e pavido, disposto a tutto pur di arrivare a una qualche forma di successo. Fantozzi sogna una vita appena migliore della sua. Si innamora della signorina Silvani, chimera raggiungibilissima, invidia il viscido Calboni più di quanto invidi i mega-direttori galattici. Ambisce a scalare un paio di gradini della scala sociale, al massimo, senza neanche osare di desiderarne la cima. Rivendica l’enormità della sua dignità media, della sua vita qualunque.
Lo sfruttamento cinematografico dell’idea di partenza, spinto fino all’abuso, ha indebolito pesantemente l’originale carica di ferocia nel ritratto della società italiana della rubrica de L’Europeo. La satira sociale ha lasciato spazio a una comicità ripetitiva, elementare, a tratti volgare. Il personaggio, però, ha continuato a proporsi come un esempio di sintesi critica sociologica e antropologica dell’italiano. Nessuno è mai più riuscito a raggiungere una simile perfezione sintetica in una rappresentazione comica. Chi ci ha provato in tempi recenti – vengono in mente Cetto Laqualunque di Antonio Albanese e il Checco Zalone cinematografico, più di quello televisivo, di Luca Medici – non è mai riuscito a trovare il giusto equilibrio tra comicità e disperazione, tra realismo e surrealismo.
Fantozzi è la vittima designata del potere, pronto a riconoscere l’umanità del proprio carnefice anche durante le sofferenze per timore delle reazioni. Accetta ogni umiliazione solo per poter continuare la sua semplice vita fatta di poche certezze. E quando reagisce, sa già di andare incontro a una soddisfazione effimera e a una severa punizione. Sa che a 92 minuti di applausi seguiranno sempre le ripercussioni. La gloria è breve, la punizione eterna.
Qualche anno fa – era il 2009 – Paolo Villaggio resuscitò sulla carta il suo ragioniere per una rubrica fissa sul quotidiano L’Unità. Fantozzi tornava a parlare in una società cambiata, con altri valori, altri punti di riferimento, altre paure. Villaggio stesso era molto cambiato, sempre più cinico, cupo, oscuro. Quando Villaggio lo inventò, Fantozzi tifava Inter (erano gli anni delle vittorie in Europa, nei film tiferà sempre Italia e guarderà le partite internazionali del Milan) ed era, apparentemente, democristiano. Nel segreto dell’urna, però, votava PCI, perchè i comunisti garantivano il posto fisso, l’incarico statale a vita, l’impossibilità del licenziamento. La presa di coscienza politica passa per il collega Folagra – il compagno Folagra – e ovviamente ha conseguenze drammatiche. La ricerca di un’identità ideologica sarà costante nell’evoluzione del personaggio, sempre pronto a credere alle promesse dei candidati. Il Fantozzi dell’Unità era leghista, infatti, di quella Lega che in quegli anni aveva ormai abbandonato le istanze secessioniste per avvicinarsi alla versione attuale di nazionalismo razzista e xenofobo. In linea con il suo livello culturale medio-basso, dichiarava Villaggio a un quanto meno confuso Borghezio durante un’apparizione televisiva, Fantozzi trovava nella Lega di allora chi potesse parlare dei suoi bisogni. Fantozzi era diventato della Lega perché l’italiano medio, in fondo, era leghista, a qualsiasi latitudine. Contro l’immigrazione, contro Roma Ladrona che spreca e consuma, a favore di punizioni violente per stupratori e pedofili, pensa a se stesso, al proprio territorio, alla propria città, quando va bene, prima che all’intera nazione. È incline a seguire chi grida più forte, chi è più simile a sè, chi parla più semplicemente. Ha paura del mondo al di fuori delle proprie certezze, non capisce la globalizzazione, l’economia internazionale e le oscillazioni del prezzo del petrolio. Oggi, probabilmente, Fantozzi voterebbe MoVimento Cinque Stelle e pubblicherebbe false notizie su Facebook, pronto a indignarsi senza capire fino in fondo.
Il Fantozzi di oggi starebbe antipatico a molti, probabilmente, sempre vittima ma animato da quel generico fascismo che sembra proprio delle nuove classi medie. L’Italia è cambiata, cambierebbe anche Fantozzi. Per fortuna la versione leghista del ragioniere è stata dimenticata in fretta e l’immagine è rimasta quella solita, con la moglie Pina, la figlia Mariangela e il pigiamone di flanella.
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