“Culo nero” di A. Igoni Barrett
Quando essere è più semplice che diventare
di Cecilia Monina / 20 novembre 2017
Culo nero (66thand2nd, 2017) è il primo romanzo del nigeriano A. Igoni Barrett e ricorda, ma solo a una prima lettura di superficie, una metamorfosi kafkiana del nostro tempo.
È ingannevole, a pensarci bene: la storia si apre con Furo Wariboko sdraiato nudo sul letto che si contempla la pancia «bianca come l’alabastro», e con una blatta rossastra che veloce attraversa le piastrelle della camera per infilarsi tra gli stipiti d’un armadio. Inutile dire quanto quelle antenne ricordino «l’insetto immondo» in cui si trovò trasformato Gregor Samsa un centinaio d’anni fa. Eppure il protagonista kafkiano è da sempre associato all’oblio dell’umanità, all’ultimo dei reietti, all’irrevocabilità del destino beffardo che ti relega al dimenticatoio persino della tua famiglia. Per Furo Wariboko invece la storia è diversa.
Sì, è vero, Furo è un nigeriano che una mattina, senza poterselo aspettare, si scopre oyibo, cioè un bianco, con tanto di pelle diafana e cangiante, capelli color carota e occhi verdi. Tra le mura di casa sua non sa come affrontare il cambiamento, di sicuro c’è che la sua famiglia non deve scoprirlo e in un abile gioco di salti da una stanza all’altra riesce a sgattaiolare fuori dal portone senza farsi vedere. Sa di doversi inventare qualcosa, perché quella mattina ha un colloquio di lavoro – l’opportunità che aspetta da una vita – ma deve arrivare dall’altro capo di Lagos ed è senza un soldo in tasca.
Se il cambiamento lo confonde, così anche Lagos, la città babele dove è cresciuto, lo terrorizza. Lì quasi nessuno rivolge la parola a un oyibo, i bianchi sono «opportunisti proverbiali o ingenui da ingannare» e persino Furo, fino a quel momento, ne aveva visti solo alla televisione, o tra le pagine di qualche rivista. Nel caos della città labirintica non c’è tempo per fermarsi, nel dedalo di vie e di auto che bloccano il traffico c’è giusto lo spazio per qualche occhiata storta, per uno sguardo sorpreso, per le facce stranite dall’inaspettato. Ma accade che la nuova condizione di Furo sembra assumere un grado di positività, gli astri sembrano essergli finalmente a favore: ottiene un passaggio in taxi, supera il colloquio solo dopo qualche domanda di circostanza e un lieve sospetto del manager aziendale, nei buka (capanni che servono cibo, un incrocio tra le nostre tavole calde e quello che chiamiamo street-food) gli vengono offerte porzioni extra di carne, diventa il magnete della curiosità femminile, e persino all’aeroporto viene sottoposto a un controllo superficiale del passaporto, debitamente falsificato per l’occasione. Poi avviene un incontro che cambia le sorti del racconto, o meglio, ne cambia la prospettiva. Furo si è rintanato in un centro commerciale e sta seduto a uno di quei lunghi tavoli da bar destinati alla condivisione, un uomo – a poca distanza da lui – pare scribacchiare qualcosa, quando Furo gli chiede indicazioni sull’ora. I due cominciano a parlare, scambiandosi frasi di circostanza. Scopriamo che l’uomo si chiama Igoni ed è, guarda caso, un alter ego dell’autore. Poche pagine più avanti, ancora, scopriremo che Igoni sarà vittima prescelta della metamorfosi, esattamente come Furo e si risveglierà in un corpo di donna, col nome di Morpheus.
Viene allora da domandarsi quanto sia realmente nodale la questione ˝razziale˝, mi si passi il termine, in Culo nero, se sia davvero così determinante il fatto che al centro della metamorfosi vi è il colore della pelle, e un conseguente ribaltamento delle parti per cui è un bianco, un oyibo, a subire le occhiatacce, la diffidenza, le perplessità. Ecco, io credo che sia solo un lembo della trama, che serva ad animare il plot, che sia un pretesto che di certo spinge a una riflessione, al più che mai urgente ˝mettersi nei panni altrui˝. Ma non è sufficiente, è solo una riduzione della storia di Furo, che da quel fatidico risveglio non lotta tanto con la sua pelle nuova o con le frasi di scherno, quanto più con la sua identità, intesa come un’intelaiatura complessa di sangue, radici e destino. Furo si è reso conto di «non avere più un passato, né un futuro che fosse frutto del suo passato», è in balia di un presente che si è dovuto inventare, improvvisamente non ha più una storia alle spalle. Scopre che sua sorella ha lanciato un accorato appello su twitter per ritrovarlo, ma è consapevole di non poter fare ritorno, perché nessuno gli crederebbe. Ma Furo sa da dove viene, in fondo, sa chi è, e sa che la sua storia può bussargli alla porta da un momento all’altro.
Barrett, alla sua prima prova di romanziere, ha un ritmo altalenante: se la storia di Furo – questo Gregor Samsa nigeriano di cui sono esaltate gesta e debolezze – è in grado di scaturire una certa empatia, amplificata dalla satira sull’identità razziale e dai riflessi malinconici ancora più facili da cogliere, così non è per la vicenda di Morpheus, doppio di Igoni (quindi dell’autore) che vive la transizione da uomo a donna, uscendone però – e solo nell’ultimo capitolo, Metamorfosi – come figura stucchevole e, verrebbe da dire, di troppo. Mi piace pensare che Culo nero si interrompa a pagina 228, prima di scivolare nel superfluo. Fate la prova.
(A. Igoni Barrett, Culo nero, trad. di Massimiliano Bonatto, 66thand2nd)
LA CRITICA
La metamorfosi di Furo Wariboko, ragazzo nigeriano che si risveglia bianco, è il viaggio metaforico ai confini dell’identità, quando essere è più semplice che diventare. Un esordio che oscilla tra la vette della commedia e del dramma familiare, con qualche caduta nel mezzo.
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