E se invece
Intervista a Davide Orecchio, autore di “Mio padre la rivoluzione”
di Gabriele Sabatini / 17 gennaio 2018
Diciamolo subito, Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio (minimum fax, 2017) è un libro eterogeneo in cui si affiancano storie impossibili a fatti reali, citazioni accademiche a brani di canzoni. Un caleidoscopio di suggestioni con un filo che le lega tutte: l’ottobre russo, le sue idee, i suoi protagonisti, i suoi sogni e le sue distorsioni.
Si parla di Rivoluzione, e magari si pensa di cominciare dal 1917: primo errore, è il ’56 l’anno di apertura del libro, quel ’56 in cui Budapest veniva invasa dai carri armati sovietici.
Orecchio è un abile dissimulatore, capace di instradarti in una via per poi sorprenderti facendoti scoprire che la strada per Mosca non è tracciata lungo una vasta pianura, ma attraverso uno scollinamento continuo. E allora, per trovare risposta a quelle domande che leggendo mi si formavano in mente, è stato necessario incontrare l’autore, e di porgliele, quelle domande.
Mi piacerebbe cominciare con qualcosa di immediatamente percepibile: perché la rivoluzione che dà il titolo al tuo libro è declinata al maschile ed è persino padre?
Perché c’è senz’altro un gioco sui generi, uno spunto per mischiare anche quel tipo di carte, come le molte che si mescolano in Mio padre la rivoluzione. Ma c’è anche una ragione più profonda, che riguarda mio padre: se devo identificare il comunismo, e l’evento che lo innesca in tutto il mondo, con una figura genitoriale, devo farlo con quella paterna. È una figura che racconto nel capitolo Il mondo è un’arancia coi vermi dentro, in cui si parla di un reportage siciliano di mio padre del 1945. Ho scelto di inserirlo nel libro anche in virtù di sorta di istinto conoscitivo presente già in Città distrutte (Gaffi, 2012), tramite l’alter ego di mio padre: Pietro Migliorisi. Io sono nel bel mezzo di uno studio su di lui, nel senso che voglio sviluppare ancora il racconto su Migliorisi. Vedi, il percorso biografico di mio padre si incolla quasi perfettamente al secolo scorso: nasce nel 1915, l’anno in cui l’Italia entra in guerra, e aderisce al comunismo soltanto dopo aver fatto la resistenza, ossia dopo il passaggio nel fascismo nel quale lui nasce e cresce. Stavo lavorando su questo quando è cominciato il progetto di Mio padre la rivoluzione, che potremmo quasi definire collaterale, svolto contemporaneamente, ma che nasce successivamente al lavoro su Migliorisi. Perciò doveva esserci dentro per forza. Non poteva essere mia madre la rivoluzione perché tutta questa parte della mia archeologia familiare la riconduco a lui.
Il suo è un percorso che accomuna molti italiani. In tanti infatti hanno aderito in gioventù al fascismo, magari anche perché affascinati dal suo vigorismo, e se ne sono allontanati quando ha mostrato il suo vero volto. Non è allora un caso che gli eventi italiani raccontati nel libro siano più vicini agli anni della Seconda guerra mondiale che non a quelli della Rivoluzione russa.
Sì, per quanto riguarda il comunismo italiano sono più interessato alla generazione successiva a quella dei fondatori; alla generazione che non è soltanto quella di mio padre, ma che è quella che effettivamente si libera dal fascismo. Quelle generazioni furono fasciste nel senso che ci nacquero, furono cresciute e allevate nel fascismo. Secondo me la grande forza di quella generazione è stata quella di rinunciare a quel padre, il regime, e seguire un percorso di orfanezza e orfanità, rinunciando a quel padre e trovandone un altro attraverso la Resistenza e poi il Partito comunista. La generazione che effettua questa transizione, magari aderisce alla lotta partigiana anche in nome di Stalin e non di valori democratici liberali, ma ha consentito la transizione verso la democrazia. Mi interessava tra l’altro moltissimo trovare un modo, in questo libro, di avere capitoli diversi rispetto al 1917, per vedere come il comunismo sia arrivato fino a noi, riguardando tre se non quattro generazioni.
Mio padre la rivoluzione è però innanzitutto una controstoria: usi la fonte, quindi l’aderenza storica, ma la affianchi all’invenzione narrativa. Quali scelte hai fatto e quanto è stato difficile gestire tutto ciò sapendo di dovere da una parte non tradire il racconto storico e d’altra parte non ingannare più di tanto il lettore? Qual è stata la tua bussola?
Innanzitutto devo dire che in chiusura di tutti i capitoli è presente una nota finale. Non è un atto di pedanteria né di vanteria delle conoscenze, ma è proprio un atto dovuto nei confronti di chi legge e nei confronti delle fonti che ho usato, travisato o narrativizzato. Quella nota serve per spiegare quali sono i documenti; le testimonianze storiche grazie alle quali si può ricostruire, se non la verità storica, almeno la versione storiografica degli eventi. Quello è il primo puntello e lo avevo ben chiaro quando mi sono seduto per scrivere la prima riga. Lì emerge completamente il piano saggistico. Naturalmente ognuno dei capitoli ha avuto delle difficoltà specifiche e ci sono stati quelli più estremi, controfattuali e di immaginazione, come per esempio quello su Trockij vivo nel 1956, oppure quello in cui Stalin e Hitler sono congiunti in una sola persona.
Parliamo di Trockij nel ’56. Quello è un anno periodizzante nella storia del comunismo, i carri armati sovietici invadono l’Ungheria.
Infatti l’idea era proprio quella di immaginare cosa avrebbe detto e fatto Trockij in un anno in cui, se vuoi, il comunismo perde la sua ultima possibilità di autoriforma in tutta l’area del controllo sovietico. A ben vedere, però, l’esito del racconto è una controfattualità che conferma la storia, quindi non un’invenzione rispetto all’accaduto, perché se pure il rivoluzionario è vivo, dal racconto emerge comunque un fallimento. Trockij va addirittura in cortocircuito e racconta il ’56 come se fosse il ’17. Una controfattualità al servizio della storia e al servizio di un giudizio sulla storia. In questo senso, la fantasia fa come un passo indietro e diviene uno strumento per comprendere meglio gli avvenimenti: attraverso l’invenzione puoi formarti un’idea del 1956.
Avevi fatto un cenno a Hitler e Stalin uniti in un personaggio unico: Iosif Adolf Vissarionovič. Con lui corri un rischio ancora più grande, quello di accomunare due dittature che però avevano origini e ascendenze molto diverse: il nazismo non ha mai manifestato uno slancio di liberazione dei popoli come quello, poi tradito, del comunismo.
Non è che consideri comunismo e nazismo sullo stesso piano storico, morale o etico; peraltro io faccio anche un passo al lato e parlo non del comunismo in generale ma dello stalinismo. È però vero che i due regimi, se osservati nel decennio degli anni Trenta, hanno moltissimi aspetti in comune, e non li scopro io. Posto quindi che le intenzioni di partenza del comunismo non fossero quelle (e anzi, c’è la mortificazione di un progetto di riscatto dell’umanità) nel regime staliniano troviamo aspetti in comune con quello nazista. Quello che da un lato erano gli ebrei dall’altro lato erano i kulaki o il nemico di classe. Poi ci sono certamente grandissime differenze, e quelle le conosciamo.
Gestire un personaggio del genere sarebbe potuta però essere un’esperienza fallimentare, non sentivi addosso una forte pressione?
La sentivo, di timore ne avevo, ma volevo vedere come sarebbe venuto. E poi mi sono sempre confrontato con l’editor, Alessandro Gazoia, chiedendogli esplicitamente di dirmi se quel capitolo non fosse andato nella direzione giusta. Mi era difficile scrivere un libro sulla Rivoluzione non affrontando questo tema dello stalinismo, e la cosa migliore che mi è venuta di fare, per descrivere delle analogie fra i due regimi, è stata quella di creare un personaggio che fosse uno e due. Poi non arriviamo agli estremismi di Ernst Nolte o della Historikerstreit degli anni Ottanta per la quale il nazismo era una reazione al comunismo: queste cose non mi interessano e infatti non ne ho neanche parlato; ma è innegabile che ci sono molti aspetti comuni, specialmente nella articolazione della repressione. E anche qui occorre fare un distinguo per quanto riguarda la soluzione finale e quello che è accaduto nei campi di concentramento nazisti, ma l’approccio alla repressione e alla pulizia etnica è molto simile, e questo è sorprendente. Da un lato si eliminano prima i comunisti, poi gli omosessuali, poi gli zingari, poi con l’eutanasia i disabili e si crea una macchina statale che pensa e progetta tutto ciò sin dalla metà degli anni Trenta; in Unione sovietica – in un impero che eredita la multiculturalità e la multietnicità dell’impero zarista – va avanti un simile progetto di pulizia etnica, se non di sterminio, delle minoranze. Centinaia di migliaia se non milioni di persone vengono uccise. E le vittime non sono soltanto i così detti contadini ricchi, i kulaki, ma sono anche le minoranze etniche dell’impero sovietico. Questo accade in quel decennio lì tra Mosca e Berlino.
Ed è quello che tu hai utilizzato come miccia per creare un personaggio unico.
Sì, e c’era anche una tensione morale: uno dei motivi principali di questo lavoro è il dimostrare che anche attraverso la controfattualità, o con l’ipotesi su quello che non è accaduto, si può ragionare su come le cose sarebbero potute andare diversamente. La Russia di Stalin, per esempio: l’Unione sovietica di Stalin è esattamente ciò che non doveva accadere. Quindi non puoi non parlare dello stalinismo se parli del ’17.
Non solo storia politica o grandi eventi mondiali, ma anche una piccola controstoria della musica: mi riferisco all’incontro tra (di nuovo lui) Trockij e un musicista di nome Zimmerman.
Quello è il capitolo dedicato a Bob Dylan che non diventa Bon Dylan. Tutto nasce da un racconto già apparso in Dylan Skyline (Nutrimenti, 2015), una raccolta a cui hanno partecipato diversi autori, ma in quel racconto non c’era la parte trockista.
I due – nella realtà – condividono una ascendenza familiare simile.
Esatto, c’è una radice comune, quella dell’ebraismo dell’impero zarista: Trockij (Bronštein è il vero nome) era figlio di quello che oggi chiameremmo un manager agrario. La famiglia viveva in Ucraina e gestiva una grande fattoria agricola; anche gli Zimmerman venivano dall’Ucraina. Partendo da questa slacciata radice dell’ebraismo ucraino ho giocato su un incontro tra di loro. È storia nota che il giovane Dylan – attratto più dal blues e dal nascente rock and roll – si imbatte nella musica di Woody Guthrie e diventa un cantante folk. Tutto succede anche grazie a un viaggio iniziatico che Dylan compie per andare a trovare un Woody Guthrie già malato: la leggenda narra che gli entra nella stanza dell’ospedale, tira fuori la chitarra, suona per lui e lo conquista. Da lì parte la strada che porta Dylan fino al Nobel. Io ho invece immaginato che quell’episodio, che è un momento fondamentale nella vita di Bob Dylan, non si risolva come si è risolto, perché Guthrie è molto malato e la scintilla non scatta. Zimmerman se ne torna a casa senza l’approvazione del suo idolo musicale, ma gli offro una seconda occasione: sarebbe stato destinato a continuare a suonare da solo nella sua stanza, come dal suo nome è intuibile, e invece l’incontro con Trockij rappresenta un secondo punto di svolta che gli consente di diventare un folksinger famoso e di vincere, anche nella fantasia, il premio Nobel.
Non sfuggirà, a chi maneggia il libro, che sulla copertina c’è scritto “storie”, non “racconti” o altro, solo storie: perché?
È una cosa che ricordo bene. Da un lato c’è un problema intrinseco alle cose che scrivo io: se guardi i miei testi è difficile definirli. Certo c’è la forma breve, ma è sufficiente la forma breve per avere dei racconti? No, la misura non è soltanto nella quantità, perciò ho una ritrosia a definirli racconti. Ne parlavo con Giorgio Gianotto, allora direttore editoriale di minimum fax, e ci chiedevamo: come definirli? Mi ponevo un problema di onestà nei confronti del lettore: dargli la definizione più esatta possibile di quello che sta per prendere in mano. E quindi abbiamo pensato che storie fosse la cosa più onesta da dire. Altrimenti sarebbero stati dei racconti, che pure in parte sono, ma sono fatti con un metodo diverso, perché basati su fonti storiografiche. Storie è davvero forse il modo più corretto per indicare tutto, anche perché se uno legge sulla copertina “racconti”, poi si aspetta un racconto vero e proprio.
Ma a metà libro sono presenti quaranta pagine di citazioni riguardanti la Rivoluzione, e sono tutte vere. Sembra quasi una chiave di volta, come se tu disegnassi un arco di storia e fantasia con al centro questa cosa che le tiene insieme.
Sono le mura perimetrali della casa. Non a tutti è piaciuta questa parte centrale; alcuni l’hanno sì molto apprezzata, ma altri hanno detto che si interrompe la favola narrativa, la finzione, con questo blocco. Però è una scelta che rivendico, e con essa un po’ continuo a rispondere alla domanda iniziale sul come unire invenzione e rispetto della storia: questo capitolo di citazioni è stato uno degli strumenti fondamentali per non perdere l’orientamento mentre me ne andavo a fare le follie immaginarie e controfattuali. Un’àncora che non mi facesse levitare. Inoltre ci tenevo a fornire al lettore, in qualche luogo del libro, senza nessuna finzione se non quella del collage cronologico, la voce dei protagonisti e degli storici.
Il Breve corso di storia del Partito comunista è stato il libro ufficiale di storia del comunismo dato alle stampe in Unione sovietica nel 1938, ne conosciamo una sola edizione, ma tu ne presenti molte altre: è un esempio di utilizzo di una fonte e di invenzione su una fonte.
Quell’unica edizione del Breve corso ebbe infatti una vita travagliata. L’avvio del progetto nei primi anni Trenta sancisce la perdita di libertà e autonomia degli studi storici in Unione sovietica. Stalin chiede che si inizi a lavorare su un manuale che racconti la versione ufficiale della storia del comunismo. Il libro impiega molti anni per essere pubblicato, perché tutti i protagonisti che sarebbero dovuti esservi dentro ogni tanto cadono in disgrazia, perciò questo breve corso di storia viene scritto e riscritto infinite volte da una commissione di storici chiamata a redigerlo. Quindi del libro, anche se noi ne conosciamo una sola edizione, sono esistite revisioni infinite. Io ho immaginato molte edizioni successive anche perché mi interessava soprattutto far percepire al lettore l’aspetto mitologico e automitizzante dell’oligarchia comunista sulla storia stessa del comunismo. Le edizioni successive che ho inventato sono utili per presentare varie letture degli eventi e delle idee possibili di comunismo, che corrispondono anche alla percezione che molti di noi hanno avuto del comunismo stesso, perché noi lo vediamo e giudichiamo diversamente a seconda della fase storica che si vive. Utilizzare il breve corso mi serviva per trasmettere questo cambiamento. Tutto concorreva a sottolineare che nessuno come i militanti comunisti ha conosciuto male la storia del comunismo, e questa è una responsabilità propria delle oligarchie, a causa delle quali non avevi soltanto Trockij fuori dai manuali, ma tutta una serie di tendenze, di comunismi altri possibili e mai realizzati, di personaggi, leader e movimenti, sistematicamente espunti nella versione ortodossa del comunismo del 1938. Il Breve corso racconta non una storia, ma una leggenda, che è quanto di più lontano dalla storia come realmente è stata. Anzi, racconta qualcosa che è più di una semplice leggenda, perché diventa mito, e il mito si muove tra verità e menzogna. Questo è stato, per tanti militanti, il comunismo: un mito.
Ringrazio Davide Orecchio di questa lunga chiacchierata e, indossando il giaccone, mi viene da chiedergli quanta nostalgia ci sia di quel mito nel suo libro. Mi risponde che no, il suo non è un libro nostalgico, ma un libro in cui c’è l’interesse a riscattare qualcosa successa cento anni fa, trovando dei punti di contatto e di dialogo senza mai rimuovere quello che è accaduto allora e negli anni successivi.
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