Beck e quel vago senso di incompletezza
"Hyperspace", l'ultimo lavoro dell'artista americano
di Luigi Ippoliti / 12 dicembre 2019
Insomma, Beck sta dentro a Scientology o no? Ad anticipare l’ultimo lavoro dell’artista americano, Hyperspace, un’intervista in cui in cui dice di non farne assolutamente parte, nonostante in altre abbia detto l’esatto contrario.
Controverso Beck, come controversa è la sua produzione artistica: sembra aver passato una carriera a cercare di capire chi è, con il risultato di alcuni picchi, chiaramente Mellow Gold e Odelay, ma anche The Information, a cui ha alternato momenti in cui è rimasto a vivacchiare su una sufficienza striminzita. Colors, per esempio, o Guero.
Hyperspace non ha nulla di chiaramente speciale, è un lavoro fiacco, che alla lunga annoia l’ascolto. Ci sono degli spunti interessanti, come l’entrata prepotente del basso di “Saw Lightning”, alcuni generici richiami ai Tame Impala e Flaming Lips, una voce che qui sembra muoversi tra quella di Chris Martin e John Grant. Molto bella “Stratosphere”, con un arrangiamento semplicissimo e centrato. Un album che avrebbe potuto dire molto altro, ma che invece soffre di un qualcosa che sembra suonare come un freno a mano tirato. O meglio: come qualcuno che non sa esattamente dove sta andando.
Hyperspace potrebbe essere il manifesto di una sorta di sindrome di Beck: sapere di ascoltare qualcosa di follemente valido, che poi va a sgretolarsi ascolto dopo ascolto. Lasciando qualcosa che non è stato, se non l’ennesima riprova di avere a che fare con qualcosa di incompiuto.
Oggi scrive un album piuttosto eterogeneo, a metà tra Morning Phase e Colors, in cui si diverte a cercare qualche soluzione vintage che però suona un po’ di plastica. Hyperspace è il suo tipico album in cui non riesce a fare quello che potrebbe fare.
Beck è un genio, ma alcuni giri a vuoto hanno influenzato negativamente lo sviluppo della sua carriera. Perché i già citati Mellow Gold e Odey sono due pietre miliari: quella assurda commistione di folk, blues e hip hop che faceva impazzire intere generazioni rimane lì a testimoniare quanto sia bravo. Ma poi tante cose buttate un po’ a caso. Ritrovarsi tra le mani un lavoro come Hyperspace conferma questa tendenza.
E fa male, perché Beck è quello che è riuscito a incarnare lo spaesamento degli anni ’90 come solo altri due grandi hanno saputo fare: “Loser” è importante quanto “Smells Like Teen Spirit” e “Creep”, due inni di gruppi iconici come Nirvana e Radiohead.
In Hyperspace, Beck si accontenta di una sufficienza, quando c’erano i presupposti per poter puntare ad altro. La collaborazione di Pharrell Williams non ha dato quel quid necessario. In definitiva, non si capisce cosa abbia voluto rappresentare veramente in questo album.
Ma Beck è anche questo, e ce lo teniamo così.
LA CRITICA
Giunto al suo quattordicesimo album, Beck non riesce a sorprendere con Hyperspace. Alcuni momenti interessanti soccombono sotto i colpi di una noia diffusa.
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