«Per me che nella provincia navigo in silenzio»
Piero Chiara e i suoi luoghi
di Ulderico Iorillo / 19 marzo 2020
«Nei paesi la vita è sotto la cenere. Per vivere come si vorrebbe da giovani ci vuole danaro; e di danaro ne corre poco. Allora si gioca per moltiplicarlo e si finisce col fare del gioco un fine, una mania nella quale si stempera la noia dei pomeriggi e delle sere. Non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre, c’è il lago e la campagna. Si sta legati ai tavoli a denti stretti e neppure si pensa che lo studio, o un mestiere qualsiasi, potrebbero rompere quell’inceppo che si maledice e si adora, e aprire una strada nel mondo a chi nascendo si è trovato davanti l’acqua del lago e dietro le montagne, quasi a indicare che per uscire dal paese bisogna compiere una traversata o una salita, fare uno sforzo insomma senza sapere se ne valga la pena».
In queste righe iniziali di Il piatto piange (Mondadori, 1962) Piero Chiara tratteggia il mondo della piccola Luino, cittadina della provincia varesina dove è nato e ha trascorso gran parte della sua vita, e dove ha ambientato quasi tutti i suoi romanzi. L’autore ci immette immediatamente nella realtà degli sfaccendati giocatori di carte che saranno i protagonisti della sua storia. Ma proprio come un giocatore incallito finge di mostrarci la sua mano, senza trucchi, come se tutto quello che intende raccontare non è altro che la vita di quei giocatori che neppure si accorgono di quello che gli è intorno; personaggi che occupano il loro tempo al tavolo verde bloccati nell’incanto negromantico di un posto dal quale uscire non rappresenta necessariamente una salvezza. Ma è in quel «nei paesi la vita è sotto la cenere» che nasconde il suo asso nella manica, ed esplicita in modo icastico quanto in realtà c’è da raccontare nelle storie della sua piccola cittadina di frontiera, di come ribolle la vita in provincia, nascosta sotto una quotidianità apparentemente immota.
«Qualcuno che si ribella o che viene scosso dalla necessità, se ne va a lavorare o a far ribalderie all’estero, o almeno fuori da quei limiti. Gli altri continuano a giocare, a studiarsi, a guardarsi vivere l’un l’altro. Di tempo in tempo trovano qualche nuova forzatura del dialetto o inventano un soprannome che affliggerà una famiglia per due generazioni. Passano una stagione dopo l’altra e aspettano il ritorno di quelli che sono partiti per poterli ascoltare quando raccontano in cerchio al Metropole o al Caffè Clerici».
E ancora proseguendo in quest’analisi dell’incipit del primo fortunato romanzo dell’autore luinese, si palesa la malinconica e allo stesso tempo ironica giostra delle relazioni sempre uguali e dei posti che la ospitano, dei bar come piazze dove ci si ritrova in attesa di notizie provenienti dal mondo esterno. Chiara narra di una quotidianità che ripete i suoi schemi, un immobilismo sempre diverso nel quale si agitano figurine più vere di quelle reali che animano la commedia umana, tanto reali che non pochi luinesi si riconobbero nei personaggi di quei romanzi che li videro loro malgrado protagonisti.
Si deve al poeta Vittorio Sereni, concittadino e amico di Chiara, il merito di averlo convinto a scrivere il primo romanzo. Durante una cena avvenuta verso la fine del 1957 Sereni ebbe modo di ascoltare i racconti dell’amico, che da grande affabulatore qual era, teneva banco con le rievocazioni della Luino degli anni ’30. Sereni, allora direttore della collana Il Tornasole di Mondadori, pregò Chiara di mettere su carta quanto aveva raccontato quella sera e ben presto da quel nucleo primigenio, si venne formando Il piatto piange che uscì nel 1962 e trovò la sua collocazione proprio nella collana diretta da Sereni (della vicenda editoriale ne parla ampiamente Gabriele Sabatini in Visto si stampi, ItaloSvevo, 2018). Chiara non era nuovo alla scrittura, infatti, si dedicava a recensioni ed elzeviri per diverse riviste, ma prima di approdare alla scrittura aveva avuto una vita piuttosto concitata.
Dopo una burrascosa carriera scolastica fatta di bocciature e scuole private, prese la licenza complementare da privatista nel ’29, poi emigrò in Francia, e di nuovo a Milano. Nel 1940 ricevette la chiamata alle armi, ma presto fu congedato. Successivamente, con l’accusa di essere un “mormoratore”, venne espulso dal partito nazionale fascista. Nel ’43, alla caduta del fascismo, mise il busto di Mussolini nella gabbia degli imputati del tribunale in cui lavorava e di lì a poco fu costretto a passare il confine. Finì in un campo disciplinare nel Vallese. Rimesso in libertà nel Canton Ticino collaborò con lo spionaggio americano. Nell’immediato dopoguerra provò numerosi lavori in giro per l’Italia, anche come mercante d’arte, e grazie alle sue doti innate di conferenziere, lavorò nella Radio svizzera italiana. Al primo romanzo arrivò quando era già in pensione.
La prima edizione di Il piatto piange ebbe un discreto successo, ma fu approdando agli Oscar nel 1968 che ebbe inizio la vera fortuna commerciale di Chiara che aumentò con le sue opere successive. «Nei primi anni Ottanta, oltre quattro milioni di suoi libri circolavano per il mondo, ma al contempo, quella critica che nel 1962 lo salutava come il narratore ironico e indagatore dei vizi dell’uomo, gli si allontanò sempre più». A Il piatto piange seguì il romanzo La spartizione ambientato sempre nella Luino dell’anteguerra, che uscì nel marzo del 1964 e fu ristampato quattro volte nel giro di un anno. Le imprese di Mansueto Tettamanzi e di Emerenziano Paronzini ruotano intorno al pretesto della caccia e non più del gioco delle carte, e sono circondate dal coro di voci di Luino, dalla quinta del lago, dei caffè e dei biliardi. Ma, come accennato, la lista dei romanzi (e dei successi di pubblico) ambientati sulle sponde del Verbano è lunga: Il balordo (1967), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), La spina nel cuore (1979), tanto che Cesare Zavattini lo battezzò “il mago del lago”. Quando Luino non è la quinta delle vicende, l’autore, infatti, prende in prestito qualche paese limitrofo, spostandosi di qualche chilometro fino alla sponda piemontese del lago. Chiara è stato anche un saggista prolifico e si è occupato soprattutto della figura di Giacomo Casanova, ma il romanzo resta di sicuro la forma letteraria che più gli si addice. Riguardo questo, scrive: «Il racconto, la novella, il fatto isolato riferito perché vi si rinvenga una morale o comunque un esito è il genere narrativo più antico, essenziale, immutabile e ineliminabile, che segue la storia dell’uomo, e dei suoi comportamenti. È narrativa pura, e come tale ritratto fedele e immediato di un momento di vita, di un personaggio, di un episodio significativo ed esemplare eretto a simbolo e figura». E Piero Chiara riesce quasi sempre ad arrivare «all’essenziale», alla «narrativa pura», perché ha il grande pregio di far in modo che la struttura narratologica e linguistica su cui reggono i suoi romanzi non appaia preponderante, riuscendo quasi sempre a mettere il racconto al centro. Ad oggi i libri dello scrittore luinese non hanno più il successo di pubblico di cui avevano goduto tra gli anni ’60 e ’70 e i favori della critica, che l’avevano abbandonato dopo le prime prove, oggi lasciano spazio a una più serena analisi dei pregi e difetti della sua scrittura e della sua poetica.
Durante la redazione di quest’articolo, mentre ero alla ricerca di libri di Piero Chiara nella biblioteca di famiglia mi sono imbattuto in un’edizione cartonata di Sale e tabacchi (Mondadori, 1989), una sorta di zibaldone di ricordi, pensieri e aneddoti raccolti negli ultimi mesi di vita dall’autore, pubblicato postumo e recuperato tra le carte identificate con il titolo Appunti di varia umanità e di fortuita amenità scritti nottetempo. Il testo in sé non ha un gran valore letterario, ma sull’ultima pagina del mio libro, come spesso capita nei volumi passati per le mani di mio nonno, ho trovato dei suoi appunti. Un foglio attaccato con una striscia di scotch ingiallito e datato 5 settembre 1989 riporta, a seguito di alcune riflessioni, una storiella che i racconti di Chiara dovevano aver fatto riaffiorare alla sua memoria.
«Ad Ailano [il paese dei miei nonni n.d.r.] si racconta che un tale chiamato Cammisola si allontanò dal paese per un bel pezzo di tempo, tanto quanto lui ritenne opportuno che la gente si accorgesse della sua assenza e si meravigliasse che non si vedeva in circolazione. E quindi un giorno si avvicinò al paese. Al primo che incontrò chiese: “Neh, che si dice di Cammisola? L’interrogato a sua volta chiese: “ma chi è Cammisola?” Il povero Cammisola chinò la testa e amareggiato dovette riflettere: “allora Cammisola c’è o non c’è a nessuno importa!”».
Le storie di Chiara sono i racconti di tutti i paesi, i racconti attraverso i quali si ricerca il senso della vita, magari con un po’ di umorismo e di leggerezza, per questo mio nonno ha riportato un racconto della sua di terra, che è uguale ai racconti delle tante Luino d’Italia. Infatti, è proprio nella conclusione de Il piatto piange che Chiara scrive: «Luino non deve essere cercata sulle carte geografiche o nell’elenco dei Comuni d’Italia, ma in quell’altra ideale geografia dove si trovano tutti i luoghi immaginari nei quali si svolge la favola della vita». In ultima analisi, se pure provenienza di un autore innegabilmente ne modifica lo stile e spesso anche i temi, per alcuni è il territorio a essere guida della scrittura stessa, punto di partenza, a volte, o punto di arrivo. Riflettendo sulla propria produzione Chiara affermava: «il mio paese divenne lo sfondo di molte mie storie. Tutto è accaduto in quel paese, perché tutto è accaduto in me».
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