Storia di un’appartenenza tribale
Su "Ultras" di Francesco Lettieri
di Francesco Vannutelli / 27 marzo 2020
È Ultras il primo film della collaborazione tra Netflix e Mediaset a sbarcare sulla piattaforma di streaming, passo iniziale di una possibile nuova via per il cinema italiano con spazio per nuovi talenti e generi meno battuti dalle produzioni tradizionali.
L’esordio è affidato a Francesco Lettieri, classe 1985 da Napoli, all’opera prima dopo essersi fatto un nome come il regista della musica italiana. Sono suoi, infatti, i videoclip di alcuni dei nuovi cantanti e gruppi più conosciuti e apprezzati: Calcutta, Carl Brave e Franco 126, Thegiornalisti quando ancora c’erano, e, soprattutto, Liberato.
È infatti il rapporto con il cantante misterioso il precedente che più si nota in Ultras, per stile e ambientazione. Liberato ha curato la colonna sonora del film, con anche un brano inedito, “We Come from Napoli”, prodotto da 3D dei Massive Attack, non nuovo alle colonne sonore per il cinema italiano. Un suo brano, “Herculaneum”, faceva parte della colonna sonora di Gomorra di Matteo Garrone (premiato tra l’altro con il David di Donatello in uno dei tanti momenti imbarazzanti nella storia della manifestazione).
Non è solo 3D a creare un legame tra Garrone e il primo film di Lettieri. Sono tanti gli elementi che Ultras sembra riprendere dal cinema del regista romano, nell’estetica della miseria, nel rigore formale. Sicuramente, la scelta di Aniello Arena come – ottimo – protagonista amplifica ulteriormente l’effetto déjà-vu con un altro dei film di Garrone, Reality.
Ultras racconta la storia di Sandro, cinquantenne a capo del gruppo di tifo organizzato Apache. Non può seguire la sua squadra allo stadio per il daspo e alcuni giovani membri approfittano della sua assenza, e di quella di altri componenti storici, per cambiare regole ed equilibri. Sandro, però, non sembra troppo turbato dall’ammutinamento. Sente che è arrivato il momento di cambiare vita, o almeno di provarci.
Chi pensa che Ultras sia un film sul calcio sbaglia. Lo sguardo di Lettieri (anche sceneggiatore insieme allo scrittore Peppe Fiore) si ferma sul tifo organizzato come fenomeno antropologico ancor più che sociologico. Senza dilungarsi in riflessioni, mostra la natura quasi animalesca di questi assembramenti maschili accomunati dal pretesto della passione calcistica. Non è un caso che non si veda neanche un fotogramma di calcio giocato. Non è un caso che i protagonisti vengano mostrati impegnati a fare altro quando ci sono le partite. Non è importante il campo o il risultato: per gli ultras conta solo l’appartenenza al gruppo.
Le ottime intenzioni del regista esordiente, però, si vanificano nella voglia eccessiva di mostrare senza raccontare. Tutto rimane fermo alla superficie, senza mai un’immersione alla ricerca di un qualche tipo di profondità. Così, anche il protagonista Sandro, che pure domina la scena anche quando è assente, rimane bidimensionale, senza una vera coerenza di azioni e intenzioni.
Lettieri ha una sua identità di regista già messa in chiaro nei videoclip, con alcuni passaggi diventati già dei marchi di fabbrica, soprattutto per l’uso di zoom e movimenti di camera avanti e indietro. La sensazione che suscita Ultras è però quello di una somma di suggestioni prese dal cinema italiano degli ultimi vent’anni. Sicuramente la scelta di personaggi e ambientazione non aiuta, perché una parte del pubblico è ormai saturo di storie più o meno criminali tra le classi disagiate del napoletano. Ultras alla fine è una specie di compendio di Gomorra film e serie e di tutti i savianismi che ne sono derivati fino a La paranza dei bambini.
(Ultras, di Francesco Lettieri, 2020, drammatico, 106’)
LA CRITICA
Dopo i videoclip, Francesco Lettieri esordisce con Ultras, il suo primo film che ribadisce la sua estetica senza però riuscire del tutto a definire una vera identità.
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