L’eredità di W.G. Sebald
“Il fantasma della memoria”, a cura di Lynne Sharon Schwartz
di Daria De Pascale / 21 aprile 2020
Ha ragione Filippo Tuena quando nella prefazione di Il fantasma della memoria (Treccani Libri, 2019) dice che per i lettori italiani W.G. Sebald è uno scrittore quasi interamente postumo. Lo è per ragioni editoriali: i suoi testi sono stati pubblicati in modo coerente da Adelphi, nelle bellissime traduzioni di Ada Vigliani, ben dopo la sua morte, avvenuta nel 2001. Ma lo è anche per ragioni intrinseche alla sua scrittura: leggere Sebald ha qualcosa della catabasi, nella discesa del regno dei morti per ascoltare storie di drammi minori, ma non per questo meno degni di essere raccontati. E la sua assenza dal nostro mondo sembra una conditio sine qua non per il suo essere un Caronte errante, in bilico tra i due mondi – «un flâneur dell’oltretomba».
Eppure c’è stato un tempo in cui Sebald era uno scrittore in ascesa: una sorta di meteorite, che cade all’improvviso sulla Terra con un testo, Vertigini, già maturo, già così forte da scompaginare il mondo letterario (prima era venuto Secondo Natura, composto da tre poemi in cui già la sua voce si coglieva in modo compiuto). C’è stato un tempo in cui rilasciava interviste, in cui cercava di spiegarsi, di farsi comprendere – in cui veniva letto, osannato ma anche criticato più o meno in buona fede, come un qualunque altro scrittore.
È questo tempo che Lynne Sharon Schwartz ricostruisce con il suo libro, pubblicato in America già nel 2007, che mostra come la critica, anche di nomi illustri, lasci spesso il tempo che trova davanti alla storia, perché la letteratura ha bisogno di sedimentare, di mettere radici per poter essere guardata con lucidità, con il benedetto senno del poi. Ma che offre soprattutto la possibilità di scoprire l’uomo dietro alle opere.
Sempre «ai margini», come dice a Eleanor Wachtel, sempre al contempo dentro e fuori alle cose – alla guerra, di cui, nato nel 1944, vide solo la coda, e le macerie, che da bambino pensava «fossero la condizione naturale delle città», un pensiero che sembra attecchire così in profondità da essere parte importante della sua poetica; alla Germania, che lasciò a vent’anni per non farvi più ritorno, ma il cui pensiero non lo abbandonò mai e dalla cui lingua non riuscì, né volle mai affrancarsi; all’Inghilterra, che divenne la sua terra di adozione ma di cui vedeva le idiosincrasie con occhio esterno – il Sebald che emerge sembra avere due facce: l’intelligenza vivissima, a tratti venata di un qualche snobismo accademico, e l’umiltà profonda di chi sa che quando impara qualcosa sta toccando sempre e comunque solo la superficie; la malinconia più densa, il tratto più familiare per i suoi lettori, e un’ironia, un vero e proprio umorismo, che lascia spesso senza parole anche i suoi intervistatori e strappa un sorriso amaro, quando non una vera risata.
A chiarirsi almeno in parte attraverso le sue parole è però soprattutto un aspetto tra i più affascinanti e conturbanti, non privo di contraddizioni, delle sue opere: il rapporto tra il reale e la finzione. È costitutivo dei racconti di Sebald un elemento di irrealtà, la sensazione di un narratore affidabile soltanto in parte, di un narratore che si nasconde mentre si racconta, che cela trappole per confondere il suo lettore. Il pensiero che non sia tutto proprio come viene raccontato: un corto circuito nella sospensione dell’incredulità.
Questo vale per il racconto che fa di sé – è proprio di Sebald la voce che ascoltiamo, sono suoi i viaggi, sono sue le esperienze di dissociazione, di sofferenza mentale così acuta, come quella descritta in “All’estero”, la seconda parte di Vertigini, che dà avvio al suo viaggio nel nord Italia e lo spinge poi a scappare da una città all’altra? È vero ciò che ci racconta? Non perché la sua biografia sia importante di per sé, ma perché fidarci di lui ci consentirebbe di credere a tutto il complesso intreccio di racconti che crea, a volte difficili da districare.
E vale tanto più per quelle immagini sempre in bianco e nero che sembrano emergere dalle ombre, troppo indistinte, troppo casuali perché possano avere un valore di documento; che sembrano lì proprio per dirci di diffidare, di cercare non la veridicità del singolo racconto quanto piuttosto di cogliere «il tentativo di arrivare a una verità superiore».
La questione è interessante a un livello intellettuale per ciò che riguarda le storie di scrittori che punteggiano Vertigini – il racconto romanzato che fa della vita di Stendhal, o dell’esperienza nei Piombi di Palazzo Ducale di Casanova –, ma ha dei risvolti etici nel momento in cui Sebald assume su di sé il compito di testimone di una memoria privata, sempre dolorosa e spesso realmente tragica: le sofferenze minori causate della Storia, e più di tutto dalla Seconda guerra mondiale e dal Nazismo.
È essenziale quando in Gli emigrati ricostruisce la storia di Paul Bereyter, l’eccentrico maestro di scuola della sua infanzia, costretto a lasciare la Germania prima della guerra in quanto ariano per tre quarti, che visse la discriminazione razziale e che tuttavia non riuscì a liberarsi dal legame con la sua patria, tanto da tornarci per combattere durante la guerra e dopo rimanere per insegnare, e la cui sofferenza, costretta e soffocata per tutta la vita, sembra tracimare in età avanzata e lo porta a suicidarsi sui binari della ferrovia – e ogni suggestione visiva tra il binario del paese di S. che apre il racconto e il binario dei treni che portano a Auschwitz è chiaramente voluta (è d’altronde di suggestioni e di non detto che vivono le opere di Sebald).
È essenziale quando racconta di Max Ferber, descrivendo per metà il proprietario della sua prima casa di Manchester e per metà un pittore tedesco naturalizzato inglese realmente esistente e piuttosto noto (e la sua tecnica di pittura, malinconica e immaginifica, parte integrante del suo carattere) senza mai però nominarlo, in un modo che lo rende identificabile ma sempre con un grado di incertezza – il punto più alto, forse, della commistione di realtà e finzione che caratterizza la sua idea di «scrivere poesia dopo Auschwitz».
Sebald non si svela mai del tutto su questo punto, pur cogliendo appieno la portata della sua scelta artistica. Si dice estraneo alla narrativa realistica, sembra persino disprezzarla, e afferma di cercare nuove strade per fare letteratura; ammette di mescolare realtà e finzione, di integrare racconti di persone diverse per creare una storia – in un modo forse non dissimile da quello di qualunque altro autore; di dare un senso nuovo a documenti, alle immagini che appaiono nei suoi testi, il cui significato originario va perduto nella creazione letteraria per assumerne un altro. Poi, complice forse anche la crescita, l’evoluzione personale, ritratta in parte, rimescola le carte, e nel farlo offre aiuto a chi è interessato a criticarlo, forse in malafede. E chissà se non fosse un modo per aprire la questione, per mostrare le vulnerabilità di una società attraverso le proprie.
C’era senza dubbio della malafede, o quantomeno il riflesso di una paura ben nascosta, nella risonanza che ebbero le conferenze che Sebald tenne nel 1997 a Zurigo, raccolte poi in Storia naturale della distruzione, e nel dibattito che suscitarono. Nel provare a raccontare e analizzare le sofferenze patite dalla popolazione tedesca durante i bombardamenti degli Alleati, sembra «toccare un punto particolarmente sensibile nell’equilibrio psicologico della nazione tedesca». Lo testimonia la gran quantità di lettere, di racconti fino a quel momento rimasti non detti, che ricevette a seguito di quelle conferenze, che facevano ricorso – proprio come le poche testimonianze raccolte nel dopoguerra – sempre a espressioni stereotipe, come se il trauma di quella sofferenza non riconosciuta si fosse cristallizzato in frasi fatte, in lampi di immagini discontinue. Ma ci fu anche, soprattutto da parte della classe intellettuale, un vero e proprio rifiuto di aprire la questione, in una sorta di benaltrismo storico fatto di deviazioni e attacchi pretestuosi.
La stessa che sembra avere Ruth Franklin che, un po’ per scarsa conoscenza della critica costante, martellante dell’autore verso la Germania nazista e post-nazista, un po’ – sembra – per partito preso, accusa l’autore di scarsa sensibilità e soprattutto «di aver sostenuto la tesi che le sofferenze della popolazione tedesca vadano a compensare i crimini nazisti», escludendo di fatto la possibilità di un racconto dell’orrore visto e vissuto dal popolo tedesco, a prescindere dalla sua innocenza o colpevolezza.
A prescindere da domande destinate a rimanere senza risposta ma che segnano l’intera vita interiore e intellettuale dell’autore: come se un popolo intero possa essere considerato colpevole, e in che grado, di crimini aberranti come quelli perpetrati dal e in nome del Terzo Reich; se i figli siano responsabili dei crimini dei padri; se un popolo possa essere per sua natura incline al male, o quantomeno a un’espansione che è sempre a discapito di altri, come sottende in tempi meno che sospetti quando osserva che «il progetto di una grande Europa, già fallito due volte entra in una nuova fase e la sfera d’influenza del marco tedesco – la storia ha un modo tutto suo di ripetersi – quasi ricalca per estensione i confini del territorio occupato dalla Wehrmacht nel 1941».
Se ci si possa davvero liberare da un trauma attraverso il racconto, se raccontare sia una catarsi o solo un pericoloso rimestare in sofferenze in quiescenza: «Si dà per scontato che sia un bene parlare dei traumi, ma non è sempre vero. Specialmente se ti trovi nella posizione di istigare le persone a ricordare, a parlare del loro passato e cose così, e non sei sicuro che l’intrusione in quella vita non causerà qualche danno collaterale, che potrebbe risparmiato a quella persona».
L’opera di Sebald è un grande racconto di traumi. È il racconto delle vite di personaggi schivi, silenziosi, che vivono a metà per evitare di affrontare il proprio dolore, e spesso dal dolore si fanno vincere. Come Ambros Adelwarth, prozio dell’autore al servizio per tutta la vita di una ricca famiglia americana, forse amante del rampollo di quella famiglia, che viene inghiottito dalla malinconia quando perde il lavoro, e si fa ricoverare nella clinica psichiatrica di Ithaca, nello stato di New York – la stessa città in cui insegnava Nabokov, la cui figura attraversa tutti i racconti di Gli emigrati.
È il racconto di Michael Hamburger, traduttore e amico di Sebald, anima affine il cui incontro viene descritto, in uno dei passaggi più delicati di Gli anelli di Saturno, quasi come una sorta di spersonalizzazione, in cui le parole dei due amici si mescolano fino a diventare un’unica voce – in un processo che costituirà la base di tutto il racconto di Austerlitz, un altro personaggio la cui condizione di piccolo profugo dei Kindertransporten, orfano senza radici e defraudato della sua memoria, lo tiene al riparo dagli orrori peggiori della persecuzione nazista in Repubblica Ceca, ma non per questo incide meno sul suo equilibrio mentale e sulle sue possibilità di vivere una vita piena.
Difficilmente i personaggi raccontati da Sebald sono dei grandi, persone illustri – ci sono eccezioni, certamente – ma quelle dei semplici, dei dimenticati. Sono spesso storie passate in secondo piano perché prive di quella drammaticità brutale, estrema, che sembra il requisito di un racconto sulla Shoah. Un’emotività di cui a volte sembra opportuno diffidare (Bensoussan: L’eredità di Auschwitz), per cercare di superare la superficie e avvicinarsi invece con la razionalità al mistero dell’abisso delle persecuzioni portate avanti dal Terzo Reich, tenendo sempre a mente che la violenza, la tortura, l’assimilazione e l’eliminazione sistematica di intere popolazioni, come ci ricorda Sebald parlando del colonialismo, dei campi degli ustascia, della questione irlandese, è il risultato più inquietante dell’industrializzazione, del progresso della tecnica in grado di «fabbricare cadaveri senza morte, non-uomini il cui decesso è svilito a produzione in serie», come osservava Agamben.
Non per sminuire l’orrore dello sterminio nazista – il contrario –, ma perché istituire paralleli è l’unico modo per vedere con più chiarezza attraverso il presente, per coglierne i coni d’ombra e cercare di stabilire, se è ancora possibile, dei limiti oltre cui la tecnica e la produzione non possono andare senza rischiare di riprodurre questi e altri orrori.
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