DEL PERDERE E RIGUADAGNARE EQUILIBRIO
“Azzorre”, romanzo d’esordio di Cecilia M. Giampaoli
di Giulia Eusebi / 27 luglio 2020
Azzorre è una storia iniziata trentuno anni fa, l’8 febbraio 1989, quando un aereo partito da Bergamo e diretto a Punta Cana interrompe la sua corsa a Pico Alto, unica vetta dell’isola di Santa Maria.
Azzorre è la storia di una bambina di sei anni che quel giorno perde suo padre e che, una volta adulta, sente la necessità di intraprendere un viaggio fino a quello sperduto lembo di terra in mezzo all’Atlantico per guardare in faccia il passato e liberare così il proprio futuro.
Pubblicato per i tipi di NEO Edizioni, Azzorre è l’esordio potente di Cecilia M. Giampaoli, che tramuta la sua esigenza di catarsi in una narrazione biografica lucida, a tratti anche ironica, che invita il lettore a farsi compagno di questo percorso che affronta il tema del dolore e della perdita senza compiacersi o adagiarsi in facili compatimenti.
L’intento di un tale pellegrinaggio fisico e dell’anima è chiaro fin dalle prime pagine, dichiarato al lettore in modo franco, per evitare qualsiasi tipo di fraintendimento. «Non sono venuta per riportare in vita mio padre, il passato è passato e non si può rifare, ma ho un conto aperto con questo posto. Nel male e nel bene, sarei diversa se non fosse successo. Non sarei io». Sono le parole di una giovane donna consapevole di essere chi è proprio in virtù della mancanza vissuta, ma che non indugia a guardare nell’abisso nietzschiano rischiando di essere fagocitata a sua volta dal mostro.
Chi scrive ha la stessa limpidezza di sguardo della bambina in copertina. Perché la bambina in copertina, la Cecilia bambina, fissa dritto il lettore per siglare con lui un accordo: è possibile entrare in questa storia solo a patto di osservare le cose con occhi tersi, senza pregiudizi sulle vicende che verranno raccontate. La copertina, quindi, si fa doppiamente soglia di un mondo che è quello della narrazione e quello della dimensione privata e intima dell’autrice. Una volta all’interno ci si può solo lasciar trasportare da un narrare cadenzato, che unisce il racconto degli eventi, quasi fosse un diario di bordo, a fulminee riflessioni esistenziali che si imprimono sulla carta restituendone l’urgenza.
Quella di Cecilia M. Giampaoli in Azzorre è la catabasi in un Ade paradisiaco che assume le sembianze rigogliose e vivide di una delle nove isole dell’arcipelago portoghese, ultimo avamposto europeo prima della distesa d’acqua che conduce al Nuovo Mondo. In realtà la sua è una catabasi à l’envers, perché scendere nel punto più buio del proprio dolore e della sua storia familiare significa trovare la forza di salire in cima a Pico Alto, la collina di 586 metri, dove «nemmeno gli alberi crescono più» in seguito a quanto accaduto ai 137 passeggeri e ai 7 membri dell’equipaggio del Boeing 707 dell’Independent Air di Atlanta.
Per descrivere come nei sistemi complessi è possibile il verificarsi di eventi anche catastrofici, lo studioso americano James Reason ha utilizzato l’immagine di più fette di formaggio svizzero poste una sopra l’altra, il famoso Swiss Cheese Model. Le fette sono le difese del sistema, i buchi sono le immancabili falle. Solo se si verifica un allineamento dei buchi, gli errori umani e le disattenzioni si tramutano in disastri. Se «tutti i sistemi di difesa coinvolti non falliscono nello stesso momento, l’aereo è salvo», ma nella storia di Cecilia un allineamento c’è stato, e quello stesso allineamento l’ha spinta a salire su un altro aereo alla volta di quella stessa isola che ha inghiottito per sempre suo padre.
«Io, come ho detto, in questo viaggio assaggerò tutto». Perché in viaggi simili non ci si può porre limiti e, con una scrittura asciutta e quasi nodosa come se cercasse di enucleare grumi di significato, Cecilia accompagna se stessa e il lettore alla scoperta di una costellazione di incontri che la guida durante il suo mese sull’isola. Un mese per conoscere chi ha vissuto quello stesso evento sconvolgente, ma da un’altra prospettiva. I ragazzini che stavano giocando mentre l’aereo si è profilato all’orizzonte fino a scomparire con un boato, il sindaco della città che si è trovato a gestire l’emergenza dei soccorsi, chi ha collezionato pezzi del boeing come macabri souvenir, l’anziano che ai tempi lavorava alla stazione meteorologica, gli abitanti del posto che si sono dati da fare per recuperare i resti di quel disastro che ha segnato irrimediabilmente le loro vite, fino ad arrivare a chi quel giorno di febbraio era nella torre di controllo.
«Di quante storie è fatta questa storia?» La verità si è rotta in pezzi ‒ forse perché troppo pesante, forse perché scomoda ‒ eppure a Cecilia pare di scorgerla, rifratta frammento dopo frammento in ciascun abitante di Santa Maria. La verità, però, si sa, è tale solo se compatta e unica nella sua interezza. Allora, forse, non è la verità il nucleo della ricerca di Cecilia, piuttosto far sì che il presente, prima di diventare passato immutabile, determini il futuro.
E allora possono starci gli incontri fugaci che lasciano addosso la sensazione di aver afferrato qualcosa di solido, gli incontri che sembrano delinearsi come embrioni di amicizie che il tempo non potrà scalfire, e i rifiuti dolorosi simili a porte sbattute in faccia a chi domandava soltanto di condividere un pezzo della propria storia.
Alla fine di questo mese sull’isola di Santa Maria, descritto in modo così nitido in Azzorre, Cecilia M. Giampaoli ricorda a se stessa e a chi l’ha accompagnata nelle pagine del libro che vivere equivale a camminare ma che per farlo occorre tenere sempre a mente una cosa: il moto è bilanciamento e il corpo per poter andare avanti deve imparare il sottile meccanismo del perdere e riguadagnare equilibrio.
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