Dare del tu al linguaggio
A proposito di “Darsi del tu” di Edina Szvoren
di Giuseppe Del Core / 7 ottobre 2020
La narrazione è il punto di arrivo dell’esperienza. Potrà suonare come una sentenza d’accademia, tanto più che una simile asserzione ne implica un’altra, e cioè che tutto è narrazione. Siamo però soliti considerare che una vicenda accade due volte: nel presente, che è il tempo in cui si consuma, e nella memoria, che è il “luogo” atta a conservarla e a rievocarla. Essendo tuttavia la memoria soggetta a modifiche e cedimenti, ne consegue che il processo di rievocazione è innanzitutto – o forse soltanto – un processo di traduzione da un’immagine a un’altra, e poi dalle immagini alle parole. Vi è quindi un distinguo più sottile, che è quello tra narrazione e narrativa – il processo che si fa genere, il genere che si fa arte: il punto di arrivo dell’esperienza, per l’artista, è l’arte. Non si tratta, come potrà sembrare, di un’introduzione un po’ scolastica, quanto di una premessa a un ragionamento quasi sillogistico. La letteratura è l’arte che trasforma le “cose” in parole – è l’arte che non può spostarsi dal campo delle parole ed è in esso limitato. Il narratore, dunque, opera in un campo che non solo è più circoscritto di altri – alle arti figurative, per esempio, è concesso poggiarsi su più elementi, come lo spazio e la sua distribuzione, le forme, i colori – ma soprattutto è lo stesso in cui si muovono i lettori – ogni lettore traduce a parole la propria esperienza; e perfino, all’estremo, l’esperienza letteraria, che è già un’esperienza di parole.
A proposito del rapporto tra narratore e lettore, c’è una frase di Edina Szvoren – dal racconto “Viviamo così” incluso nella raccolta Darsi del tu (Mimesis, 2020) – che riesce a illuminarlo: «C’è qualcosa che noi non conosciamo, ma che comunque esiste». Ogni esperienza, infatti, appartiene in modo esclusivo a chi l’ha vissuta; gli altri – i lettori, gli ascoltatori, gli amici, gli amati – la ignorano. Nondimeno questa esperienza esiste, e viene condivisa – e rievocata – a parole. Tutto ciò che non sappiamo trasformare in parole, e che pure esiste per noi, sfugge agli altri – e i limiti del nostro linguaggio diventano la misura della nostra solitudine.
La poetica della Szvoren non si smuove da questo punto: io sono le cose che vedo e che sento – e gli altri, che vedono e che sentono cose diverse, lo sanno chi sono io? Tale desiderio di identificazione – di sé e degli altri e delle cose – è il desiderio, spesso frustrato e talvolta taciuto, dei personaggi che compongono questo universo narrativo, in un difficile processo di comprensione reciproca che si fa speculare, nel testo, a quello tra narratore e lettore, complicato dalla stessa autrice, abile a sfruttare l’esattezza e i limiti della propria lingua. L’ungherese, per esempio, non possiede il genere grammaticale, e infatti di frequente ignoriamo il sesso dei personaggi; così come rari sono i nomi propri, e quasi tutti sono riconosciuti soltanto attraverso la parte che ricoprono nella storia (“il più grande”, “il più piccolo”, “la madre”, “il poliziotto in abiti civili”, e così via).
Questa ambiguità viene portata all’estremo nel racconto “Le notti brevi dell’affittacamere”, narrato da una prima persona a cui non importa precisare quale ruolo della coppia ricopra e che parla con una sorta di duale che non concede precisazioni anche quando le azioni sono distinte («uno di noi» / «l’altro»), salvo poi assumere una voce unica che simboleggia – più di ogni cosa – non solo la rottura, ma anche la (ri)scoperta della propria identità – come se nella comprensione raggiunta dall’amore svanisse il bisogno di dire agli altri chi siamo, essendo la nostra identità percepita e protetta dalla persona che amiamo. Il personaggio-narratore che torna a dire “io sono”, è un personaggio che ha perduto l’amore e che ha ripreso a cercarlo. E questo disvelamento produce anche un effetto retrospettivo alla lettura, perché il lettore arriva dunque a cogliere quale dei due faceva o diceva una certa cosa, e questo assume un ruolo nella lettura del rapporto che si è spezzato – e, più in largo, dell’amore e delle sue espressioni particolari.
Questa traduzione del mondo a parole è una convenzione umana da cui non è più possibile tornare indietro. Il paradosso delle lingue è che esse mirano all’esattezza e proprio per questo motivo rendono la comunicazione più frustrante. «Quasi saltava dal grembo per toccare l’animale. Parlava a quell’orrore, e pareva che almeno loro si capissero».
La precisione delle parole rappresenta per l’uomo un vincolo insopportabile, essenzialmente per due ragioni: in primo luogo, diminuisce il livello di suggestione; in secondo, accresce lo stimolo a un’elaborazione complessa – complessa, sì, ma nitida. «Desideravamo contorni nitidi e inequivocabili.» Possiamo osservare un quadro e restarne estasiati pur non avendo i mezzi necessari a comprendere le intenzioni dell’autore, proprio perché un’immagine – così come un suono – suggestiona il proprio fruitore a un grado che la parola esatta non può più raggiungere. Ascoltiamo i notturni di Chopin e ci facciamo malinconici, e ciò ci basta a riflettere la nostra personale malinconia: attraverso questa suggestione noi abbiamo creato un legame tra la nostra storia e quella di Chopin, e ci sembra così ingenuamente facile sentirci vicini a lui. Ma i contorni della parola – di quella che rappresenta il mezzo della Letteratura, s’intende – sono troppo definiti, vogliono significare una cosa e quella soltanto.
«La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare» – scriveva Flannery O’Connor, che, se solo avesse potuto, avrebbe probabilmente apprezzato i racconti di Edina Szvoren, così sensoriali come sono. È facile rendersene conto fin dalla prima pagina, nella quale ogni azione è innanzitutto percepita – ed è questa percezione a dare ritmo alla storia. E, ancora una volta, è come se fosse detto: esistono i sensi; non necessariamente la loro traduzione in parole. Le sequenze narrative, attraverso la modulazione della punteggiatura, risultano simili a una giustapposizione di immagini, e la loro precisione stilistica ha esattamente il peso che dovrebbe avere. Non c’è approssimazione, ma nemmeno indugio, e tanto per i personaggi delle storie quanto per noi, il riconoscimento del mondo dipende da una funzione attiva volta a percepirlo – o a metterlo in moto. All’autrice è toccata la premura del dettaglio; al lettore la responsabilità di prendersene cura – e, in questa compartecipazione, «attribuire alle circostanze accessorie – odori e colori – un significato accresciuto». Dal momento che ogni interprete del mondo riversa in esso una parte di sé, proprio perché il significato esatto è irraggiungibile, non resta che l’obiettivo di un significato che è accresciuto – cioè, il mio più il tuo: non faremo parte dello stesso mondo, ma faremo parte di due mondi simili, e questo è il meglio che si possa sperare.
La scrittura della Szvoren – grazie all’egregio lavoro di traduzione di Claudia Tatasciore – possiede la precisione, e appunto l’esattezza, che è propria dei grandi autori. È una prosa che nella calibrazione degli elementi linguistici trova l’armonia della lingua – una lingua che la scrittrice ungherese padroneggia con classe ed esibisce in una moltitudine di soluzioni brillantissime e sempre molto significative. Il racconto che dà il titolo al libro, Darsi del tu, usa l’imperativo come unico tempo verbale, ed è una scelta che sta a rappresentare tante cose.
L’autrice pare dirigere i personaggi come un capocomico dirige gli attori a teatro, e la narrazione cessa di essere storia e mostra la potenza – in senso fisico e in senso più romantico – della letteratura, che in questo modo sembra quasi riuscire a prendersi quella rivincita sulle altre arti: non ci sono impedimenti, ci sono solo le parole, e possono essere tutte quelle che vogliamo – proprio quelle che vogliamo – e allora «che la luce scivoli sulla fila di aghi montati sul davanzale» e soprattutto che «si offrano alla mente associazioni inconsuete». In una costruzione simile, in cui nulla è davvero, ma tutto deve essere, la traduzione del mondo può perdere anche l’esattezza delle parole – e per lo scrittore non esiste libertà più grande.
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