Vita e morte come due scrigni serrati
“Racconti d’inverno” di Karen Blixen
di Francesca Gosi / 30 ottobre 2020
Karen Blixen finisce di scrivere i Racconti d’inverno nel 1942. Dopo il doloroso fallimento dell’avventura africana, l’autrice si vede costretta a rientrare in Danimarca e si rifugia nella sua casa a Rungsteldung. Sono anni di raccoglimento, nei quali la Blixen si ripiega su se stessa facendo della scrittura il fulcro della sua esistenza. È qui che, nella solitudine della sua stanza, con le finestre rivolte al mare, crea e fa muovere i personaggi dei suoi Racconti d’inverno, osservandoli da lontano come improvvisi luccichii della sua immaginazione.
Sono storie intrise di miti, che hanno il suono di fiabe sognanti, meditazioni fantasiose sul senso dell’esistere, a cui il paesaggio nordico – con i suoi boschi, i suoi ghiacci e i suoi colori delicatamente tratteggiati – fa da sfondo come un dipinto impressionista, che raccoglie umori ed emozioni mai perfettamente decifrabili. Sono racconti in cui l’autrice scopre parte della sua vita, nascondendola e allo stesso tempo sublimandola in storie che fanno perno sulle principali forze che hanno generato conflitti nella sua stessa esistenza: libertà e moralità, immaginazione e realtà, matrimonio e differenza di classe, ancoraggio a fredde regole invariabili e bisogno di prospettive più ampie, scardinate da pregiudizi.
Ogni personaggio ha il proprio aggrovigliato bagaglio emotivo, che conserva sempre qualcosa di strutturalmente inaccessibile, di inafferrabile. Come a volersi allargare in un respiro di individualità, ogni carattere si perde e si definisce attraverso pause meditative che, in alcuni racconti, diventano vere e proprie riflessioni filosofiche sull’esistenza. In «Il campo del dolore», uno dei racconti più toccanti dell’intera raccolta, il giovane Adam – con lo sguardo rivolto verso il maniero di famiglia, incastonato tra i campi e le foreste danesi – discute, insieme allo zio, del delicato rapporto tra virtù e potere, e della tragedia come fenomeno dalle radici tutte umane in antitesi al comico, che è visione sublime, propria del divino.
Pensieri che rimangono quasi sospesi, irresolubili, come fiabe che lasciano una morale aperta, sempre rivedibile e avvolta in un’aura incantata che non trova soluzioni univoche. I conflitti si manifestano soprattutto nell’interiorità dei personaggi stessi, come dissonanze improvvise e inesplicabili, percepibili ma impossibili da padroneggiare. Adam – come la maggior parte dei personaggi di Racconti d’inverno – è combattuto tra il desiderio di libertà e la consapevolezza di essere soggetto alle leggi della necessità, di dover rispondere a un destino già scritto. Forse questo è il riflesso di conflitti interiori dell’autrice stessa, la cui infanzia fu segnata da un’educazione improntata alla severa disciplina, e alla quale lei decise di non arrendersi mai aprendosi sempre nuovi spazi di possibilità attraverso l’immaginazione e la scrittura.
In questi racconti destino gioca un ruolo fondamentale perché «come il canto è tutt’uno con la voce che lo modula, come gli amanti diventano una cosa sola nel loro amplesso, così l’uomo è una cosa sola col proprio destino, e deve amarlo come ama se stesso». La sensazione di una «discordanza», che attraversa tutti i personaggi, si esplica in un disordine che si può solo intuire e mai cogliere nella sua totalità, e sfocia in un conflitto che diventa «concordia» solo passando attraverso l’accettazione del dolore.
Le emozioni – spesso dalle tinte malinconiche, legate a un senso di solitudine, di desolazione e di distacco dal mondo esterno – appaiono indecifrabili, fino a quando il personaggio si arrende al volere della vita e intravede nella dissonanza la possibilità di salvezza. L’«improvvisa concezione dell’universo» passa, quindi, attraverso la presa di coscienza del fatto che il mondo è attraversato dal dolore, e la consapevolezza che esso è la chiave di accesso alla vita. Vita e morte, infatti, «sono due scrigni serrati, ognuno dei quali contiene la chiave dell’altro», così come tutte le forze uguali e contrarie che rappresentano la fibra significante di tutti questi racconti: realtà e immaginazione, scrittore e lettore, onore e vergogna, fedeltà e tradimento, grandezza e inutilità. Coppie dicotomiche che dialogano continuamente, confondendosi l’una con l’altra fino a quando i contorni di entrambe risultano sfumati, perdendo così una delimitazione netta delle rispettive identità.
I personaggi blixeniani sembrano prendere consistenza attraverso l’immaginazione, il sacco culturale ed emotivo di chi li osserva e li guarda muoversi. È solo attraverso l’immaginazione stessa che possono andare al di là del loro statuto ontologico, della loro stessa sostanza personale. Emblematico, in questo senso, è il racconto «Il bambino che sognava», che vede il piccolo Jens aprirsi alla dimensione del sogno e della fantasia per trovare rifugio dalla sua realtà di orfano. È una riflessione su come la fantasia, insinuandosi nella realtà, abbia il potere di confonderla e allo stesso tempo illuminarla, costruendo nuove possibilità di esistenza. È per questo che i personaggi si fanno portatori di altre storie, come se l’atto stesso del narrare avesse il potere di scardinarli, almeno in parte o temporaneamente, dai loro conflitti emotivi, rendendo questi ultimi, forse solo apparentemente, meno offensivi. Lo vediamo, per esempio, nel primo racconto della raccolta, «Il giovanotto col garofano», che vede il giovane scrittore Charlie Despard – disperato per la paura di aver perso il talento della scrittura – raccontare una storia ad alcuni marinai incontrati per caso, e così salvarsi. Charlie, dopo essersi perso, si ritrova, come se l’azione stessa del raccontare avesse avuto un ruolo determinante nel riallineamento delle sue forze interiori.
Un altro elemento che fa da fil rouge di Racconti d’inverno è il continuo dialogo tra le forze della natura e la volontà (o libertà) dell’uomo. È come se tra natura e umana sostanza ci fosse una simpatia nel senso etimologico del termine, un «patire insieme». La natura si esprime attraverso un suo codice, che si fa veicolo ed espressione di sentimenti umani; in risposta, questi ultimi si manifestano per effetto di una quasi fatata interazione.
Karen Blixen, con la sua sottile ironia, uno sguardo delicato e una sensibilità che sa cogliere i respiri delle emozioni umane, ci consegna una raccolta di racconti che ci fa abitare algidi paesaggi nordici dai contorni fiabeschi, facendoci immergere in una dimensione di malinconico incanto, che ci fa perdere il senso di dove finisca il sogno e dove invece inizi la realtà.
(Karen Blixen, Racconti d’inverno, trad. di Adriana Motti, Adelphi, 1980, 319 pp., euro 18, articolo di Francesca Gosi)
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