Ricordare o dimenticare? Storia e memoria d’Europa
Attorno a “Il sogno europeo” di Aleida Assmann
di Elisa Carrara / 19 giugno 2021
Ogni storia ha bisogno di un buon finale: non si perdona mai un epilogo mediocre, frettoloso o deludente. Ma per ottenere una conclusione efficace occorre fare delle scelte: capire quali elementi della storia ricordare e quali dimenticare, decidere se affidare le ultime parole a un’incrollabile speranza o a una spietata amarezza e, infine, tentare l’impossibile, ossia dare senso all’immaginazione.
Fu il sociologo americano Benedict Anderson a mostrare, nel 1983, il potere delle storie e dell’immaginazione nelle nostre vite. La domanda che si poneva, osservando i conflitti che dilaniavano Vietnam e Cambogia sul finire degli anni Settanta, era tanto semplice quanto sfuggente: cosa lega i membri di una nazione? O meglio, cos’è una nazione? Indifferente alla natura e alle sue leggi, la nazione descritta da Anderson è un processo culturale basato proprio sull’immaginazione: i suoi abitanti, condannati a essere una comunità senza però mai potersi incontrare di persona, creano continuamente storie, miti, simboli, memorie condivise e confini. L’immaginazione, perciò, sarebbe capace di stabilire la nascita e la fine di una nazione.
Basterebbe iniziare da qui, da Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi (Ed. or. 1983, ora Laterza, 2018), il saggio di Anderson divenuto in breve un classico (amato, citato e anche contestato), per avvicinarsi a un libro in apparenza diverso, pubblicato nei primi mesi del 2021: Il sogno europeo. Quattro lezioni dalla Storia (Keller editore, traduzione di Enrico Arosio).
La sua autrice, Aleida Assmann (che proprio a Anderson dedica più di una riflessione), parte da un pensiero terribilmente ottimista, difeso fin dal primo capitolo in modo assoluto, proprio come fece qualche anno fa Timothy Snyder nell’incipit delle sue Venti lezioni. Per salvare la democrazia dalle malattie della politica: contrariamente a quanto sostenuto da molti la Storia insegna e gli uomini possono imparare.
L’analisi si sofferma sul vecchio continente, sul lungo e tortuoso percorso che ha portato alla nascita dell’Unione Europea, sui fallimenti e le lezioni che i cittadini hanno potuto trarre (quattro, secondo Assmann: pace, democrazia, memoria e diritti umani) e sull’importanza dell’immaginazione, del ricordo e del dolore.
Quella dell’Europa, infatti, è una storia di violenza e di sangue, di sofferenze rivendicate e taciute, di nascita e di morte: è un viaggio crudele, che inizia dal trauma della Seconda guerra mondiale e dal relativo bisogno di proteggersi. Ma anche dall’esigenza di contenere, ancora una volta, le ambizioni della Germania. L’Unione Europea, perciò, nasce dalla paura, e soprattutto dalla necessità di includere qualsiasi cosa ritenuta pericolosa, trasformando i nemici in amici e rinunciando agli ideali di vendetta. In un suggestivo saggio di qualche anno fa (Geopolitica delle emozioni, Garzanti, 2009, trad. Sara Caraffini) Dominique Moïsi, sottolineava quanto la paura fosse il sentimento dominante e fondativo dell’Europa. Ben diversa dalla paura che ha invaso gli Stati Uniti negli ultimi anni, l’insicurezza europea ha radici profonde, che risiedono in quello che Moïsi riconosce come un problema identitario: cos’è l’Europa? Quali sono i suoi confini? C’è una coincidenza tra istituzioni e luoghi? Esiste una cultura europea? L’incapacità di rispondere pienamente a queste domande e l’ossessione per il passato, hanno contribuito (insieme ad altri fattori, ampiamente spiegati da Moïsi) a nutrire la paura.
Fu Churchill, sottolinea Assmann nel suo libro, a sostenere «la volontà di dimenticare», facendo affidamento sul desiderio tutto umano di condannare all’oblio ciò che fa soffrire. Non era Il silenzio del mare ostinato e implacabile descritto da Vercors, né tantomeno un faticoso processo di rimozione: dimenticare era considerato, in questo caso, come un atto politico, lontano dalla colpa della damnatio memoriae, ma vicina a quella «prassi di pacificazione», descritta dallo storico Christian Meier, che coinvolse Atene dopo la guerra civile.
«È chiaro che uno Stato non può esercitare un’influenza diretta sui ricordi personali dei suoi cittadini; può però sanzionare chi nel discorso pubblico rimesti in vecchie ferite, riattivando dolori e lutti, forieri a loro volta di risentimenti e aggressività», precisa Assmann. «La terapia dell’oblio» non convinse, tra gli altri, Hannah Arendt che riteneva indispensabile cercare la verità storica per elaborare i traumi del passato.
Ricordare o dimenticare, allora? Riappropriarsi del passato è un passo decisivo per l’Europa che risolve il problema attraverso la cosiddetta «cultura della memoria», indicata da Assmann come terza lezione, forse la più importante. O almeno quella che sostiene tutte le altre.
Nel caso del vecchio continente ricordare significa mettere in atto un processo dialogico, che superi il «carattere monologico della memoria nazionale»: ogni Paese, infatti, costruisce la propria identità intorno ai ricordi dei successi raggiunti e delle sofferenze subite, e all’esclusione consapevole e condivisa di colpe e misfatti. Attuare una «cultura della memoria», allora, rivela l’intenzione di comprendere che la Storia di un singolo Stato europeo è contagiata da tutte le altre; ricordare non esprime solo la volontà di riconoscere il proprio dolore, ma anche di accettare e accogliere quello altrui.
Assmann non si limita alla teoria, ma riporta esperienze, esempi e storie, per restituire concretezza e forza a quel «sogno europeo» (mai realmente nato), costruito su dolori, violenze e divisioni, ma anche su un futuro comune.
Torna alla mente un altro libro, diverso, ma capace anch’esso di mostrare il vecchio continente malato e diviso, Europa 33 (Adelphi, 2020, trad.di Federica e Lorenza di Lella) di Georges Simenon: un viaggio lucido e talvolta privo di speranza, o meglio una fotografia in bianco e nero, scattata un attimo prima che la tragedia si compia. Esiste un’Europa pubblica, racconta lo scrittore belga, conosciuta e invidiata; e un’altra Europa, affamata e rassegnata. Anche da questa differenza scaturirà il finale amaro della guerra, che Simenon non ha potuto raccontare in questo reportage: è riuscito, però, a restituire la consapevolezza di trovarsi di fronte all’inizio dell’orrore.
E se è vero (come insegna Simenon) che bisogna sempre avere il coraggio di osservare i fantasmi del nostro passato, Aleida Assmann ci ricorda l’importanza di continuare a interrogare la Storia e noi stessi.
Comments