Fallire coi fiocchi
“L’arte queer del fallimento” di Jack Halberstam
di Giulia Marziali / 7 giugno 2022
[…] non avrei saputo trovare per lei una definizione più pertinente di quella che Lambert Strether, il protagonista degli Ambasciatori di James, usa per descrivere se stesso alla sua «amica del cuore», Maria Gostrey: «Io sono un fallito coi fiocchi». […] «e vuoi sapere lei come risponde? “Grazie al cielo. Per questo la stimo tanto! Qualunque altra cosa al giorno d’oggi sarebbe orribile. Si guardi attorno, guardi la gente di successo. Vorrebbe essere uno di loro, onestamente? Del resto,” continuò “guardi me”. Per un attimo i loro occhi si incontrarono. “Capisco” rispose Strether. “Anche lei si tiene fuori”. «“La superiorità che lei scorge in me” convenne Miss Gostrey “annuncia la mia futilità. Se sapesse,” sospirò “i sogni di gioventù! Ma sono le nostre realtà ad averci avvicinato. Siamo compagni d’arme sconfitti”. Un giorno» continuai «scriverò un saggio intitolato Falliti coi fiocchi. Parlerò dell’importanza di figure simili nella letteratura, soprattutto moderna. Penso a questo tipo di personaggio come a qualcosa di vicino alla tragedia – che a volte tende al comico, a volte al patetico, oppure a entrambi […]».
Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran
Mai come in questo momento storico – che ha eletto “resilienza” a parola-feticcio, e che dopo aver posto grottescamente l’accento su metafore dal sapore bellico legate alla ripartenza si trova di fronte alla realtà di una guerra vera alle porte d’Europa – “l’arte di perdere” è emersa come una prospettiva rivoluzionaria.
Come scriveva già Azar Nafisi chiosando Gli Ambasciatori di Henry James, qualcuno ci era già arrivato, ma piegando il concetto a una forma di elitarismo che accetta il margine per evitare una compromissione: «Parecchi tra i personaggi preferiti di James e Bellow rientrano in questa categoria [i falliti coi fiocchi]. Sono persone che scelgono consapevolmente la sconfitta, pur di conservare la propria integrità. Sono elitari, non semplici snob; hanno punti di riferimento molto alti. James, credo, si sentiva uno di loro, per via dei suoi romanzi che la gente non capiva, e per la tenacia con cui insisteva a scrivere nel modo che secondo lui era quello giusto».
Un altro interessante modo di guardare all’arte di perdere ci viene fornito invece dallo studioso di letterature comparate americano Jack Halberstam nel suo L’arte queer del fallimento, da poco edito da minimum fax nella traduzione di Goffredo Polizzi. Qui la prospettiva del fallimento accoglie la possibilità di imparare da quelle categorie umane che di situazioni di minorità e marginalità hanno fatto virtù, e hanno saputo ripensare, talvolta – non suoni come un paradosso – con buoni esiti, logiche di vita e sviluppo alternative a quelle da cui, storicamente, erano state estromesse. Le persone queer, certo. Ma anche, per esempio, le minoranze etniche.
Questo modo diverso di guardare a una società dominata dallo sforzo capitalistico alla produttività, col suo corollario di esortazioni al successo e alla realizzazione, prende spiritosamente le mosse dal personaggio di Spongebob, ritratto anche in copertina.
Cosa può esserci di peggio – chiede al suo padrone, Mr Krab, la spugna gialla animata che vive nelle profondità del mare – che finire presi all’amo e cucinati dai pescatori? Finire in un negozio di souvenir.
Eppure, suggerisce Halberstam, c’è una terza via che nessuno prova mai a mettere in pratica, perché ci hanno insegnato che non è un’opzione possibile («There is no alternative»). Una terza via bartelbiana, verrebbe da dire. E cioè rifiutare le logiche all’interno delle quali non ci sono alternative se non conformarsi a ciò che ci viene imposto da chiunque individuiamo come nostro padrone, e vivere invece nel «regno controintuitivo della critica e del rifiuto».
In parole povere: fallire.
La lettura di L’arte queer del fallimento, che pure si presenta come un saggio che usa la “teoria bassa” (concetto mutuato da Stuart Hall che per semplificare all’estremo potremmo connettere alla “cultura pop”), non è poi così agevole per chi non abbia un minimo di familiarità con una serie di teorie che vanno dall’egemonia gramsciana ai gender studies. L’idea iniziale era quella, dichiarata, di un «Manuale di SpongeBob Square Pants sulla vita», eppure c’è davvero poco in comune con un agile e consolatorio libretto ascrivibile alla categoria del self-help.
I saggi distinti che compongono il libro, ciascuno con diversi gradi di difficoltà di lettura, costituiscono comunque un ottimo repertorio di ciò che l’autore riassume sotto il concetto di fallimento: l’accettare la finitezza, l’assurdità, la sciocchezza, la scemenza senza rimedio anziché continuare a opporvi resistenza, per provare di nascosto a vedere l’effetto che fa.
L’esempio sicuramente più divertente, oltre che più comprensibile, è quello che riguarda il genere di animazione. Contrariamente all’idea di chi lo ritiene una sottile modalità di indottrinamento dell’infanzia o a posizioni come quella di Slavoj Žižek, che in un suo articolo su capitalismo e nuove forme di autoritarismo guardava a Kung Fu Panda come a un trucchetto ideologico per mascherare l’ascesa di un soggetto che ci tiene a presentarsi quale uomo comune (il parallelismo era con George W. Bush), Halberstam scova tutta una serie di lungometraggi dal portato eversivo, che chiama «Pixarvolt». Film come Galline in fuga, Alla ricerca di Nemo, Monsters & co., in cui i rapporti collaborativi non sono riconducibili a legami tradizionali ma a forme alternative dello stare insieme, o in cui le strategie elaborate per la vittoria non sono convenzionalmente quelle del più forte. Le galline sono una collettività che si ribella allo sfruttamento del padrone; Dory – la pesciolina smemorata, dunque, portatrice di un handicap – è depositaria di un sapere non tradizionale che alla fine è proprio quello che serve a salvare il piccolo Nemo; i mostri si alleano coi bambini per interrompere la spirale di sfruttamento del terrore che produce elettricità per la città.
Dunque il “fallimento” (che si sostanzia nello sguardo degli altri, di quelli che lottano ancora per farcela a tutti i costi e appongono etichette negative sui soggetti che si pongono al fuori di questa logica) non ripiega per forza nel nichilismo e nell’immobilità: quello di cui parla Halberstam è una sorta di fallimento attivo e decostruzionista, un darsi la possibilità di guardare al di là degli schemi preimpostati e di trovare, negli interstizi, materiale di costruzione valido.
Gli esempi sono svariati, e passano dalla critica di Foucault alle «teorie avvolgenti e globali» ai lavori di gruppi queer di artisti e performers come LTTR, i cui eventi a Los Angeles e New York nel 2004, denominati «Pratica di più il fallimento!», costituiscono il vero e proprio punto di partenza della riflessione dell’autore.
In un continuo saliscendi fra accademismo, anti-accademismo e pop, Halberstam ci conduce in un tuffo nella contraddizione. Talvolta – come notano anche i rappresentanti del gruppo CRAAZI nella postfazione – suona poco convincente. «Ma va bene così, è la sua stessa teoria ad ammettere i passi falsi, a preferire l’intuizione alla dimostrazione analitica di ipotesi predeterminate». Vale a dire: aspettarsi una sistematizzazione con premesse ed esiti ben definiti da un libro che celebra il fallimento è inutile (e puzzerebbe anche di malafede).
Nello smarrimento, anche e soprattutto quello di prospettiva, è possibile trovare una propria via; ma – ci esorta Halberstam – non dobbiamo mai credere che non sia possibile.
Questo infatti, ci avverte, è «un libro sul fallire bene, fallire spesso e sull’imparare, per usare le parole di Samuel Beckett, a fallire meglio». Con i fiocchi, possibilmente.
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