“Mafie”: a tu per tu con Antonella Colonna Vilasi
di Alessio Spedicati / 14 maggio 2012
«Di mafia non si parla mai abbastanza e non se ne scrive mai a sufficienza». È il magistrato Giuseppe Ayala a ricordarlo nella premessa a Mafie – Origini e sviluppo del fenomeno mafioso, edito da Dissensi. Un excursus necessario per chi voglia intraprendere lo studio dell’organizzazione criminale più famigerata della nostro penisola. Un saggio che si propone anche come guida per conoscere concetti essenziali, basilari per immergersi nell’intricato mondo mafioso, mantenendo saldi la prospettiva storico-sociologica e un metodo chiaro, quasi scientifico. Intervistiamo l’autrice, Antonella Colonna Vilasi, per capire soprattutto come si è arrivati alle caratteristiche odierne della mafia.
Mafie è un saggio che ha il carattere del manuale. Viene soddisfatta praticamente ogni curiosità di base per chi voglia approcciarsi allo studio del fenomeno mafioso. È con questo intento che ha scritto il libro?
L’idea è nata dal tentativo di rispondere alla domanda: «La mafia si può combattere?» La domanda/affermazione è l’oggetto del libro, che racconta l’origine di questa organizzazione criminale da quando è comparsa fino ai giorni nostri, da un punto di vista storico-sociologico. Seguendo la storiografia tradizionale e la saggistica contemporanea, dal 1861 inizia il passaggio, la trasformazione da una mafia extrastatale a una antistatale; una struttura in concorrenza e talvolta in guerra con l’Autorità legittimamente costituita.
Uno degli aspetti maggiormente affrontati nel libro è il cambiamento che la mafia siciliana ha subito negli ultimi cinquant’anni. Per esempio il passaggio dalla figura del padrino tradizionale al boss odierno. Qual è l’aspetto che più segna la differenza tra la mafia degli “uomini d’onore” (per quanto il termine fosse bugiardo già all’epoca) e la mafia di oggi?
L’“uomo d’onore” è ormai morto. L’evoluzione contemporanea ha portato alla modifica degli obiettivi strategici, oltre che della struttura interna. Due fazioni hanno prodotto uno scontro dalla ferocia inaudita, dal 1978 fino al 1981-1982, causando centinaia di morti. Il vecchio stilema del “siciliano mafioso” che, benché dedito alla criminalità, non perde di vista le “regole” di comportamento, viene dimenticato. Si passa a una mafia stragista (Corleonesi) che ha colpito magistrati eccellenti come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La mafia odierna è ormai un’organizzazione che ha abbracciato l’alta finanza come obiettivo principale dei propri affari. È sempre più una mafia dei colletti bianchi, che ha perso elementi tradizionali come l’“onore”, l’“uomo di panza”, il divieto di tradire una famiglia con un’altra, la solidarietà familiare, la consegna del silenzio e l’obbligo di comportamento “corretto” dell’“uomo d’onore”, pur nella scorrettezza dei traffici illeciti effettuati.
Il carattere divulgativo e l’approccio scientifico di Mafie non impedisce un forte coinvolgimento emotivo del lettore. Emblematica è la parte riservata alle donne nel contesto mafioso, con la presentazione di due modelli antitetici: Rita Atria (morta suicida a 17 anni dopo aver scelto di scavalcare il muro dell’omertà) e la madre Giovanna, che viveva come un’onta personale la battaglia della figlia. Le donne di mafia restano ancora il collante fondamentale per la continuazione di quei “valori”?
Hanno avuto e hanno ancora un ruolo attivo. La cultura siciliana pone la donna come asse portante della famiglia; ci sono molte storie di mogli o figlie di uomini mafiosi finiti in carcere, le quali ereditano o prendono in mano il controllo dell’attività criminale e dei commerci illeciti.
Il caso di Rita Atria è uno dei più emblematici delle donne invece vittime e che decidono di reagire. Rita, una ragazza di 17 anni che aveva osato sfidare ciò a cui mai si sarebbe potuta ribellare, aveva instaurato con Paolo Borsellino un legame particolare, da parte del magistrato quasi paterno. L’assassinio del giudice ha rappresentato per la ragazza la fine di ogni speranza e il presagio della propria morte («Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta»).
Nel libro viene raccontato il ritrovamento del cosiddetto Codice Lo Piccolo e della Bibbia di Provenzano, due esempi diversi di gestione dei rapporti fra mafiosi. Da criminologa che riflessioni le hanno suscitato?
Il codice Lo Piccolo venne ritrovato nel covo/villa del boss a Giardinello (vicino Palermo) ed è sintomatico del modo in cui la mafia si dia delle regole interne, del carattere verticistico e paramilitare dell’organizzazione, con un preciso codice d’onore. È rilevante osservare che il codice Lo Piccolo è una sorta di decalogo del perfetto mafioso: diritti e doveri che il componente deve assumere come valori morali; vengono prescritti una serie di comportamenti da adottare, per esempio anche di natura sessuale.
Quest’anno ricorre il ventennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, icone di tante morti causate dalla mafia. A livello di impegno dei cittadini (quindi non solo di magistratura e forze dell’ordine), crede che qualcosa stia davvero cambiando? Mi riferisco per esempio a quei gruppi di imprenditori che si associano per dire no al pizzo.
Sì. Palermo aveva già cominciato a ribellarsi subito dopo la morte di Falcone e Borsellino. Le forze sane della società civile si stanno organizzando, attraverso movimenti come Addiopizzo, per cercare di contrastare fenomeni criminali quali appunto il racket del pizzo, che soffocano soprattutto i piccoli e medi commercianti e imprenditori.
La società civile sta combattendo, ma per affrontare questa lotta non devono essere dimenticate le parole di Rita Atria: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo di comportarsi».
(Antonella Colonna Vilasi, Mafie – Origine e sviluppo del fenomeno mafioso, Dissensi, 2012, pp. 160, euro 12)
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