“Amerigo” di Stefan Zweig
di Mario Massimo / 21 maggio 2012
Che i libri possano agire sul mondo, e insomma “fare” la realtà, è cosa notoriamente poco probabile. Eppure, una prova in contrario potrebbe fornirla proprio questo Amerigo – Il racconto di un errore storico, libro d’addio di Stefan Zweig (d’addio, perché fu il suo ultimo a essere pubblicato: ma anche per l’inquietante, e forse non casuale, coincidenza della data di morte di Amerigo Vespucci, il 22 febbraio, con il giorno scelto da Zweig e da sua moglie Lotte per avvelenarsi, sulla spinta di oscure, mai pienamente chiarite motivazioni), che ora opportunamente Elliot ripubblica, in traduzione di Luisa Paparella e con introduzione di Andrea Di Consoli, dopo la prima, lontana edizione mondadoriana del 1946.
Non dunque l’ennesima delle pur raffinate e letterariamente pregevoli biografie di Zweig, ma proprio una “storia” (Geschichte allora, e non Erzählung, “racconto”: ma certo, metterlo nel sottotitolo avrebbe creato, in italiano, il corto circuito con “storico”) di come attraverso più di quattro secoli un libro, uno smilzo libriccino di poco più di trenta pagine, si sia, intanto, formato quasi all’insaputa di colui che ne passava per autore e poi, attraverso vicende editoriali in cui potrebbe a ragione vedersi in azione un qualche beffardo logos della storia, col nome di quell’ignaro e quasi preterintenzionale “autore” abbia finito per essere battezzata la terra che egli aveva certo non scoperta in senso stretto, ma per la prima volta identificata come Novus Mundus, e non la sbiadita e deludente imitazione del Cipango in cui Colombo rimase fino all’ultimo convinto di avere incocciato.
Perché, è questa l’intuizione di Zweig, fu un oscuro e ormai non più identificabile tipografo fiorentino, colui che ebbe l’idea lucrosa di tradurre in latino e fondere insieme, nel 1503, alcune lettere, o relazioni, non certo nate per la pubblicazione, del Vespucci, fiorentino di non particolare genialità trapiantato per lavoro da imbrattacarte in una filiale bancaria a Siviglia e finito, con fallimentari vicende, per almeno tre volte in viaggio alla volta di ciò che oggi noi chiamiamo Brasile; ripreso in un’edizione vicentina del 1507, il testo arriva a quel piccolo gruppo di intellettuali, riuniti intorno al duca di Lorena, di cui faceva parte Martin Waldesmüller, giovane e brillante matematico, disegnatore, geografo. Sarà lui, a lanciare l’idea che la «quarta parte del mondo» venga appunto chiamata «Amerige, o America» – se è vero che le altre tre «hanno tutte nomi di donna» – «poiché è Americo» che l’ha riconosciuta come tale: nel latino di Waldesmüller, invenit.
Di qui si dipana una complessa matassa di errori e fraintendimenti, non senza livorose accuse (Las Casas, Voltaire, Emerson, e altri) al povero Vespucci di essersi voluto impadronire proditoriamente della gloria di scopritore dell’America, e insomma tutto ciò su cui Zweig articola con mano felice il suo “intreccio”, la sua abbagliante dimostrazione di quanto si diceva in principio: sì, un libro può agire sulla realtà. Se colpisce al centro il bersaglio della fantasia di chi legge.
(Stefan Zweig, Amerigo, trad. di Luisa Paparella, Elliot, 2012, pp. 128, euro 12)
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