“Derrumbe” di Ricardo Menéndez Salmón

di / 26 maggio 2012

Finalmente, una voce. Questo è ciò che viene da pensare prendendo tra le mani Derrumbe (marcos y marcos, 2012), l’ultimo romanzo di Ricardo Menéndez Salmón. Sì, perché ancor prima di addentrarsi nella storia, di palparne l’oscura atmosfera, ciò che si percepisce è una voce autoriale, netta e forte, che avvolge personaggi e situazioni. Un romanzo che è carne e sangue, in cui la narrazione della violenza non si limita a inondare la trama e gli avvenimenti, ma va a contagiare lessico e sintassi, facendo del linguaggio utilizzato l’involucro perfetto per quella specifica materia narrativa: il male.

Due storie parallele e a tratti intrecciate in una matassa aggrovigliata e scura, dalla quale tentano di districarsi personaggi di un’umanità tanto palpitante da risultare quasi dolorosa. Manila, un ispettore di polizia alle prese con un serial killer non solo introvabile, ma terribilmente efferato, cannibale, addirittura bulimico, si direbbe, dal momento che la scelta delle sue vittime non sembra essere guidata da altro criterio se non quello dell’ingordigia, della necessità di sfamarsi, letteralmente, di terrore. Mortenblau, il mostro la cui ossessione distruttiva ha le sembianze di un leone, e sembra quanto di più vero e tangibile un uomo possa concepire. Gli Estirpatori, tre ragazzi che fanno del terrorismo – violenza innalzata a modalità di comunicazione sociale – la loro personale valvola di sfogo su un mondo che dà loro tutto, ma non ciò di cui hanno bisogno. Valdivia, un fisico che collabora alla costruzione di Corporama, un parco tematico sul corpo umano, l’ennesima espressione di una mania che «si propagava come un crampo lungo la spina dorsale del pianeta». A legarli, le molteplici manifestazioni di un solo, inebriante, meccanismo, quello del terrore: «Il male trova giustificazione nella sua esistenza. Il male non richiede prova ontologica, né riduzione all’assurdo, né fede o profeti. Il male è la sua stessa aspettativa».

Derrumbe, termine dal sapore quasi onomatopeico, indica proprio questo: uno sfaldamento, un crollo. Il collasso di ogni certezza, di ogni punto fermo, ma anche la perdita di speranza e l’incapacità di agire di fronte a questo perverso fenomeno che sembra autoalimentarsi. I protagonisti del romanzo, più che le persone che ne vengono travolte, sono gli effetti stessi del male: non le vittime dirette ma coloro sui quali il male si riflette come il raggio di un sole impietoso.
Attraverso questa lente fumosa, Menéndez Salmón esplora tematiche che vanno ben al di là di un thriller o di un romanzo noir. I pochi atti d’amore che rischiarano il romanzo sono frutto di un amore perverso, tormentato. Lo stesso attaccamento di Manila alla moglie, coincidente con l’indicibile timore dell’abbandono, si mostra tanto puro quanto, a tratti, morboso: «Pensò a lei come a un grande bicchier d’acqua, qualcosa che toglie la sete e rinfresca, qualcosa la cui presenza tranquillizza. Pensò a lei come a un cibo ben conservato, una cellula geometrica e precisa, ricca di proteine, conservata in una cella impermeabile. Pensò a lei come alla sua pace, il suo rifugio, il suo riparo contro l’indifferenza del mondo». L’ispettore e Valdivia, inoltre, sembrano impersonare due versioni di uno stesso ruolo, a volte ingrato: l’essere padre. Le due serie di crimini sono poi accomunate da un’assurda reificazione del terrore. Gli oggetti sono dappertutto: l’unica firma, inconfondibile, che Mortenblau lascia sul luogo di ogni delitto è una scarpa, l’evidente e sgraziata scia del suo passaggio. E che cosa veicola gli atti terroristici dei tre ragazzi se non lo stesso Corporama? Sarà proprio quel grossolano simulacro del corpo umano fatto oggetto, plastica, vetro – in una sorta di decomposizione postmoderna – a ospitare l’ultimo atto di quel terrore inesperto, e pertanto crudele.

E tuttavia, come ci ricorda l’autore, il vortice del male, sebbene sorga da una vaga consapevolezza, da uomini lucidi e di cultura, sembra tramutarsi in un fardello troppo pesante da sopportare: «C’è un momento in cui ogni gioco perde la sua freschezza e plasticità, per diventare qualcosa di duro e rigido. È un momento sgradevole, perché il giocatore deve ammettere che è una forma di infanzia che muore in quel momento, che una forza fino a quel punto inedita, una sorta di pedagogia misera e cinica, illumina senza pietà».

Dopo L’offesa e Il correttore, Derrumbe va a completare la cosiddetta “trilogia del male”, nella quale Salmón penetra con indubbia efficacia i più reconditi e oscuri risvolti dell’animo umano, in una prosa densa e piacevolmente ricercata.


(Ricardo Menéndez Salmón, Derrumbe, trad. di Claudia Tarolo, marcos y marcos, 2012, pp. 187, euro 15)

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio