“Who’ll Stop the Rain”: Springsteen a Firenze

di / 20 giugno 2012

Stadio Franchi di Firenze, 10 giugno 2012, mezzanotte. Springsteen canta “Who’ll Stop the Rain” alla fine di tre ore e mezza di rock senza sosta. Già, perché il brano, più che profetico, viene evocato da una pioggia battente che non ha lasciato tregua ai fan accorsi per vedere l’ennesima performance sopra le righe del loro beniamino.
Risulta francamente arduo il compito di chi vuole giudicare un concerto del cantautore americano con l’obiettività del cronista. Il coinvolgimento di chi vive l’evento infatti è tale da non lasciare spazio ad altro che alla consapevolezza di aver vissuto una serata memorabile. Se mai ce ne fosse bisogno, Bruce Springsteen ancora all’età di 63 anni dimostra di esser nato per stare su quel palco. Un palco sempre scarno in quanto a effetti speciali e migliorie scenografiche, perché la musica deve dettare l’andamento della serata e rimanere protagonista assoluta.
Immancabile una “E Street Band” orfana ormai di Federici e Clemons (a cui l’amico Bruce dedica un momento toccante), ma ben strutturata su capisaldi inossidabili come Steven Van Zandt, Max Weinberg, e completata per l’occasione da un tocco di freschezza che rinfranca, grazie a elementi nuovi ancorché legati da un filo invisibile al passato (il nipote di Clarence Clemons, Jack, non è disprezzabile negli assoli di sax e sembra segnare una continuità anche reale della musica del sassofonista recentemente scomparso).
L’input della serata è fornito dall’inno degli springsteeniani doc, “Badlands”. In mezzo c’è tanta rabbia e disillusione provenienti dai temi dell’album Wrecking Ball, con la speranza che resta viva in modo struggente in “Jack of All Trades”, perla dell’ultimo lavoro. Il Boss canta la frustrazione di attese vanificate da una crisi che ha nomi e cognomi (pur non riferiti esplicitamente), senza dimenticare le radici di quel cammino iniziato ben quarant’anni fa. Un cammino riemerso con una “The River” da brivido e una “Spirit in the Night” carica di esplosività. L’ambiente è già di per sé quello delle grandi occasioni, con la pioggia che si trasforma da possibile fastidiosa nemica a compagna insostituibile, quando capisci che Springsteen la forgia per rendere unico il momento. Sembra cercarla per dire ai sostenitori che lui è in mezzo a loro, lontano da ripari accomodanti. Se la prende tutta l’acqua, andando innumerevoli volte letteralmente ad abbracciare i fortunati fan in prima fila. In un tale abbraccio il bambino fatto salire sul palco a cantare “Waitin’ on a Sunny Day” (speranza vana per quella sera) e la ragazza pescata per ballare “Dancing in the Dark” sono l’immagine dell’unione che l’artista riesce ad esprimere anche stavolta. Ed è forse questo il dato più evidente per chi assiste per la prima volta a un concerto del Boss: è impossibile non rimanerne coinvolti.
Nel frattempo la pioggia diventa acquazzone. Questo non solo non scoraggia i fedelissimi, ma quasi li rende pazzi in una saltellante dimostrazione di sfida verso se stessi e d’affetto a Springsteen; il quale proprio per questo, invece di andarsene, si gira verso Steven Van Zandt e gli dice: «Ma li hai visti? Come facciamo a non continuare?!». E si ricomincia…

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