“Il senso di una fine” di Julian Barnes
di Cristiana Saporito / 24 settembre 2012
Che storia è questa? Una come molte? Può darsi. È una di quelle che sgorga dalle rughe di un dettaglio e che diventa a sua volta una ruga, un crepaccio di carne e parole da cui nasce ineluttabilmente un altro fatto, dove ogni passo è una marcia che si mangia le impronte. E che s’interroga su quanto e come abbia camminato.
Il libro di Julian Barnes Il senso di una fine (Einaudi), caso letterario a pochi mesi dall’uscita, è solcato da enormi domande. Come da uno squarcio. Un dirupo che sanguina.
L’inizio diacronico spunta tra i banchi di scuola, nel liceo londinese che Tony Webster frequenta assieme ai suoi compagni, dentro i suoi anni troppo giovani per non scalpitare. Ha fame, della vita pronta a scrosciare, delle donne che conosce appena, che sono pensieri ingombranti più dei loro corpi, ancora lontani, ancora ipotetici. Tony ha i suoi amici, Alex e Colin, con cui gareggiare sottilmente a chi ha avuto più esperienze, con cui dissertare di quel poco che sembra l’intero. Nel mezzo del semestre in classe arriva Adrian, sfacciatamente intelligente, sfacciatamente colto, sfacciatamente affascinante; l’emblema noncurante di quello che i tre vorrebbero essere. Troppo impegnati a guadagnare ragioni millimetriche, bottoni di discorsi infinitesimi, mentre lui ha già colto l’insieme. Ha eluso una questione per scovare una risposta più grande. Le lezioni di storia sono un esempio lampante. Il professore chiede e Adrian ha già pronta la sua visione, ha viaggiato chilometri più in là ed espone chiaramente la propria sentenza come fosse un diorama. Troppo cinica forse, troppo imbevuta di disillusione. Ma comunque impressionante.
E Tony resta a guardare. Non sa essere alla sua altezza. È una crisalide insicura, ha paura di sbagliare. Anche quando si diploma, va al college e conosce Veronica. Ci esce, la bacia, la tocca, ma non riesce mai ad afferrarla. C’è un fondo imprendibile dentro i suoi occhi, un mistero che riesce a zittirlo. Sabbie mobili e buie da cui non sa mai pulirsi abbastanza. Tant’è che Veronica incontra Adrian e i due fracassano le distanze dovute. Tony resta solo, resta perdente. Finché un giorno qualunque non disordina gli altri a seguire. E probabilmente anche quelli passati. Adrian si suicida, aprendo le vene dentro una vasca. E Tony deve capire, attraversare quei buchi insoluti che hanno indosso il suo nome, la sua vicenda e quella di Veronica. Lo farà molti anni dopo, a vecchiaia avviata, quando avrà tra le mani lo stralcio di un diario di Adrian e la possibilità di ripescare i suoi dubbi.
Barnes racconta tutto con scioltezza, con la maestria argomentativa di un principe del foro: le discussioni filosofiche intraprese da Adrian e da Tony affiorano limpide e schiaccianti. I temi affrontati sono mastodontici. E la scatola umana è troppo asfittica per contenerne anche l’eco. Cosa vuol dire comprendere la vita? Amarla comunque anche se scricchiola, anche se strazia la gola, anche se risulta soltanto un dono non voluto? Oppure respingerla, restituirla al mittente è una prova inconfutabile di consapevolezza? E i fatti riportati cosa distruggono dell’originale? Quanto preservano e quanto disperdono? Perché la storia, si sa, è una forma di entropia in cui convergono le memorie dei vinti, dei vincitori e dei mediocri come Tony. Come molti protagonisti dei libri non scritti.
Il linguaggio è arguto e sofisticato, ma non inutilmente complesso. Costruito in modo cristallino, scolpito, libero da aggiunte gratuite o troppi ricami. All’autore interessa smascherare, scompigliare le carte che pensavamo assestate e definitive. Ma non come un giallista che propina chirurgicamente il colpo di scena. Come un regista sapiente, capace di deviare lo sguardo su un singolo frammento che all’improvviso si rivela un punto di svolta. Perché la verità può sfuggirci fino all’ultimo. Tony «continua a non capire», come sostiene anche Veronica, a innalzare campanili di scelte e di opinioni su terreni friabili. Dimenticando che il nostro assoluto è solo un profilo. Per questo il senso di una fine è anche quello di un inizio. L’inizio di chi interpreta quella stessa fine. Di chi prende parte al gioco, tra il suo primo e il suo ultimo respiro.
(Julian Barnes, Il senso di una fine, trad. di Susanna Basso, Einaudi, 2012, pp. 160, euro 17,50)
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