“La collina del vento” di Carmine Abate
di Marianna Solari / 26 novembre 2012
Immaginate un luogo così vasto da non poterlo contenere in uno sguardo, incurvato come un seno e porporato di sulla in fiore: è il Rossarco, immenso fondo terriero della famiglia Arcuri, tramandato, seminato, raccolto, sudato e amato per generazioni. Si staglia all’orizzonte tra l’accecante mare della Calabria, i ciottoli lucidi di una fiumara e «le montagne azzurre della Sila», morbido di zolle fresche, variegato di infinite coltivazioni, profumato di vino e olio, puntinato da peperoncini e liquirizie.
Come un rito quotidiano anche le donne degli Arcuri partecipano agli sforzi, stagione dopo stagione, decennio dopo decennio, con fedeltà focosa ai mariti e alla terra, coi loro corpi sensuali e i capelli corvini al vento. Lo stesso vento solcato dalle misteriose ali di una rondine albina, «con gli occhi simili a due gocce di pioggia impolverata».
Capostipite di tale verde ricchezza è Alberto, che poi passa il testimone al figlio Arturo, al nipote Michelangelo e all’ultimo Arcuri, Rino, colui che narra questo secolo di storia familiare dagli anni a ridosso della prima guerra mondiale sino a oggi, personaggio dietro al quale pare celarsi l’identità dell’autore, per le sue origini, il suo trascorso, la sua realtà di emigrante.
Con intensi acuti dialettali, alternati a una commovente èkphrasis da elevatissima lirica italiana, ecco l’avvincente trama di eventi di una collina rigogliosa, piena di promesse e segreti… segreti di soprusi, gialli luttuosi, aerei da guerra, amori e «robe anticarie»: «Ascoltami, figlio, so che per te non sarà facile mettere il dito nelle nostre piaghe o riassaporare la felicità di allora senza rimpianti, ma devi conoscere la verità prima che io muoia e questa storia nostra muoia con me […]. Comincia dall’arrivo del forestiero sulla nostra collina. Il resto verrà da sé». Si trattava dell’archeologo Paolo Orsi, Soprintendente alle Antichità della Calabria, «uno che non si vanta e fa i fatti», finito nel 1915 sul Rossarco alla disperata e convinta ricerca dei resti dell’antica città di Krimisa. Nonostante quella terra abbia fatto gola a molti, dai latifondisti degli anni ’20 e ’30 agli odierni ingegneri di pale eoliche, nessuno è mai riuscito a distogliere la tenace famiglia dal veemente motto arcuriano di: «Mai vendere, piuttosto comprare». Tuttavia, il famoso studioso è stato accolto sin da subito in modo diverso, soprattutto dal piccolo e poi adulto Michelangelo, perché i suoi e quelli del collega Umberto Zanotti-Bianco sono scopi nobili e sensati in nome di una luccicante «grossa pietra, tonda come un pane» con incisa una kappa, che coinvolge le vite di tutti gli Arcuri, stirpe di uomini e donne «Belli, forti e sanizzi […]. Mai una malattia, mai una freva. Spaccavano le noci con i denti janchi janchi come mèndule fresche, avevano bocche da vasare giorno e notte».
«Rosso sangue, rosso cardinale, rosso porpora, rosso sole, rosso fiamma, rosso vino, rosso ruggine, rosso cocciniglia, rosso tramonto, rosso labbra, rosso fuoco, Rossarco, rossamore…»: queste le tonalità della collina profumata e di questa profonda opera di narrativa vincitrice della Cinquantesima edizione del Premio Campiello. Non semplicemente un libro, ma un continuo batticuore di pagine avoriate, in una dolce altalena tra passato prossimo e passato remoto uniti tra loro da un filo di fiori ventosi di cui quasi si percepisce l’autentica fragranza.
(Carmine Abate, La collina del vento, Mondadori, 2012, pp. 264, euro 17,50)
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