“L’ultima Thule” di Francesco Guccini
di Matteo Chiavarone / 2 dicembre 2012
Guardi indietro nel tempo e sei uno studente universitario, stagioni in cui coglievi le occasioni al volo. Mi fermo e mi chiedo se di quell’incontro con Guccini al teatro Valle – quando non aveva ancora l’aggettivo occupato – ne avevo sentito parlare su La Repubblica, sui primi free press, su “ei fu” Radio Rock Italia, su quell’internet che stava entrando nelle case di tutti senza fagocitare tutto. Ricordo che però era nove anni fa. Non certo per una passione per le date ma per una mia personale mania biblio-disco-grafica: pochi giorni prima era uscito Ritratti – ultimo album studio del Maestro – e ogni volta che, successivamente, mi recavo sullo scaffale adibito alle lettere F (Finardi, Fortis, etc.), G (Gaber, Grechi, Guccini) e H (gruppi esotici o giù di lì) mi rimaneva l’amaro in bocca per quel vuoto temporale che cresceva anno dopo anno.
Quando su internet (internet, vi rendete conto?) leggo la notizia del nuovo album rimango di sasso: ogni tanto arrivava qualche rumors, sempre disatteso, sempre ripetuto con la stessa sicurezza: «Il prossimo mese esce il nuovo disco, lo danno per certo…» Per crederci, volerci credere, ho cercato su Facebook, sì proprio come gli adolescenti che aspettano il nuovo EP da hit parade, nelle pagine dedicate a lui, ai suoi musici o dei suoi amici. Giorno dopo giorno sono arrivati titolo dell’album, tracce, immagine di copertina. Dopo nove anni Guccini tornava davvero, non come scrittore, non come ospite di Fazio, tornava la voce della mia infanzia, della mia adolescenza, delle più importanti stagioni della mia vita.
Per la prima volta ho comprato un suo disco non in un negozio di musica, mi sono piegato alla Feltrinelli sotto casa (cd subito e vinile su ordinazione): l’ho preso in mano con la cura e l’attenzione che oggi non ci sono più, togliendo il cellophane attento a non rovinare il cartonato (altra novità, sfigurerà accanto alle altre custodie di plastica), sentendo l’odore come fosse un libro d’annata, emozionato come un bambino, come un me al passato che non sapevo fosse ancora in vita (accanto poi a una persona che credevo avessi perduto).
Con gli occhi scorro i titoli delle otto canzoni, il numero giusto, a mio avviso, per non rischiare sbavature: due le avevo già sentite ai concerti (la bellissima “Su in collina” e l’ironica “Testamento di un pagliaccio”), una, “L’ultima volta”, in anteprima su Youtube (incredibile, vero?), una annunciata da tempo (“Canzone di notte n. 4”). Rimaneva la “totale” curiosità per le altre quattro: “Quel giorno d’Aprile” (a mio avviso la più intensa), “Notti”, “Gli artisti” e “L’ultima Thule” (canzone che dà il nome all’album).
Il primo ascolto è infantile, divorato; il secondo più attento; il terzo ti porta a dare un primo giudizio; il quarto a confermarlo; il quinto a modificarlo; il sesto a farlo tuo; il settimo a innamorati di questo lavoro. E ti ci innamori per tanti motivi: perché con qualche chilo in più, paffuto, ormai totalmente canuto, Guccini ha la consapevolezza di non essere solo un cantante ma un poeta e, non me ne vogliano tutti quelli che storcono la bocca, uno dei maggiori poeti italiani contemporanei; è la lingua a essere attenta, affinata, sempre meno svogliata, forse un po’ meno genuina ma sempre virile e caparbia. Ti innamori perché in un tempo virtuale lui parla di vita e stagioni, e parla a noi e a se stesso, alla sua terra, al fiume, al vento, alla natura incontaminata o quasi degli Appennini. Noi ci siamo dimenticati dell’alba e della gioia delle prime luci, del rumore dell’acqua che scorre tra le fronde, dell’amore per il tempo passato: Guccini ci regala emozioni e nostalgia e ci regala persino il rumore, anzi il «suono continuo ed ossessivo che fa il Limentra».
E insieme a lui ci sono gli amici di sempre – aspetto solo apparentemente non legato al disco ma meravigliosa risposta alla nostra realtà di “contatti” – riuniti al Grande Vecchio, eterni ragazzini a giocare con chitarre e batterie e piani e tutto il resto, lassù sopra Pistoia, in quel mulino che dei Guccini fu e, grazie a Francesco, dei Guccini e di tutti noi sarà da qui a un futuro, speriamo, lontano. Ma è l’“Ultima Thule” a darci la botta finale: perché l’ultima isola misteriosa, l’ultimo mito cantato, è l’ultima canzone dell’ultimo album che non vedrà un ultimo concerto.
Guccini se ne va dalla porta principale, con quegli ultimi versi che ci schiaffeggiano, noi addormentati e gaudenti da tanta bellezza ascoltata: «Si perderà in un’ultima canzone / di me e della mia nave anche il ricordo». Guccini sarà ora scrittore, non più cantautore e gli auguro tutto il bene possibile, lo leggerò e lo leggeremo come sempre lo abbiamo ascoltato. E saremo orgogliosi di aver fatto parte di questa storia, di questo viaggio, di averne seguito le tracce, di portarne ai posteri le parole e il messaggio; di averne capito il coraggio, la capacità di andare oltre tutto e tutti, oltre le catalogazioni politiche che non sempre gli hanno affidato l’empireo che gli spettava; di andare a spasso nella memoria tra i portici cosce di Bologna, i vagoni dei treni, i viaggi, i ritratti, il bisogno d’amore e la forza d’amare, nei luoghi in cui Dio si è nascosto e in quelli in cui Dio ci ha reso migliori.
Grazie Francesco, di tutto e anche di questo saluto, sofferto, che ci hai voluto donare. In bocca al lupo per il tuo nuovo viaggio verso altre isole che anche noi cercheremo con gli occhi.
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