“Odisseo e i maiali” di Lion Fuechtwanger
di Cristiana Saporito / 14 gennaio 2013
Lion Fuechtwanger è uno scrittore ebreo. Lo è al presente, anche se è morto nel ’58. Tanto scrittore quanto ebreo. In parti uguali e compenetrate. Scrive perché è il suo modo di filtrare le cose, di pensare uno specchio e raccontarne i riflessi, le giunture e i battiti di ogni rifrazione. Impugna la scrittura come una lente sullo spazio abitato, un orizzonte in cui la notte è solo il giorno visto di schiena. Scrive perché la penna è il suo bisturi, quello con cui disseziona fatti e moti umani. E il fatto di essere ebreo, oltre a riempire il suo sangue, procura a se stesso e alla sua storia un moto continuo. Ondulatorio difforme. Il senso di un viaggio che trova ragioni soltanto per strada. E che dimora nel suo libro Odisseo e i maiali (Nottetempo).
Un romanzo tripartito, un trittico di volti esemplari. La prima vicenda è quella di Ulisse, che riabbraccia casa dopo aver solcato mari e paure, ma si rende conto di voler ancora partire, di non voler considerare quelle coste il suo ultimo approdo. Certo c’è Penelope, che ha scomposto la tela e le sue angosce nel corridoio di un’attesa senza finestre. Certo c’è Telemaco, che è cresciuto, ma non abbastanza da fare a meno del padre. Certo c’è il suo popolo che lo acclama, che riconosce in lui l’uomo più scaltro di tutta l’isola. Ma non basta, non può bastare. Perché ciò che gli ha permesso di tornare, quel fuoco straziato che ammala le vene, è la stessa indomita spinta che lo porta a oscillare, come il pendolo di Schopenhauer, tra il dolore e la noia. Vorrebbe essere altrove, rivedere i Feaci e le loro virtù. S’imbarca di nuovo, li ritrova sempre più evoluti e scopre di essere il più furbo solo intorno al suo perimetro, perché è sufficiente vivere con le porte aperte per accorgersi di quanto manchi alle proprie stanze. I Feaci posseggono ferro e navi sicure e lui vorrebbe padroneggiare quelle armi e quelle arti, vorrebbe apprendere, camminare, non fermarsi. Malgrado i capelli si diradino come gli anni futuri addosso alla fronte. L’unica consolazione resta il canto, la parola di Demodoco, l’Omero che eterna le sue gesta anche se non sono completamente vere, perché vera è comunque la passione che le ha mosse. Perché in ogni storia c’è sempre un’entropia.Qualcosa si disperde per lasciare che l’avventura sopravviva. Che si faccia mito.
Segue la fine di Nerone, imper-attore noncurante, troppo impegnato a recitare per preoccuparsi delle rivolte militari, di una morte che inizia a strisciare, a cercarlo mentre si distrae. Nerone paga il dazio del suo destino, di una vita sospesa due spanne sopra lo stomaco della realtà. L’uomo che si reputa divino, che sperimenta il potere dell’idolatria, per poi guardarsi attorno e capire d’un tratto di essere solo davanti alla bocca del buio. E poi il cerchio si chiude, o forse si riavvia, con l’Ebreo errante, uno spirito onnipresente, la nemesi dell’uomo nomade, che resiste in virtù dell’odio, dell’orrore del diverso capace di perpetuare il suo sentiero. L’ebreo è tale in quanto essere in fuga, maschera del perfetto colpevole; la sua patria è la somma dei passi che compie. Il razzismo, la persecuzione, l’ottuso orgoglio pangermanista, gli conferiscono in ciascun momento della Storia, il suo prezioso statuto ontologico.L’ebreo-vittima ha bisogno del suo carnefice. Probabilmente ne è solo un altro profilo. Che fonda un giornale antisemita solo per sentirsi vivo.
Piccolo e limato, attento, acuto, brillante, il testo di appena un centinaio di pagine è un trattatello raffinato sulla condizione umana, laddove la dimensione ebraica amplifica quella universale, di una creatura mortale che non può tornare dov’era, neanche facendolo. Che è chiamata a muoversi, a essere inseguita da spettri d’ombra o di carne. A vibrare nelle labbra di qualcun altro, sotto forma di ricordo. O magari di un romanzo.
(Lion Fuechtwanger, Odisseo e i maiali, trad. di Enrico Parenti, Nottetempo, 2012, pp. 112, euro 12,50)
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