“We Are Family” di Fabio Bartolomei
di Cristiana Saporito / 14 febbraio 2013
Bisogna essere molto seri per approcciare il libro in oggetto. Accantonare altri impegni, lasciarli sgolare in vie parallele e focalizzarsi. Ci vuole lo stesso tipo di serietà indispensabile per accostarsi alle favole, fare le bolle di sapone, investire i propri risparmi per acquistare Parco della Vittoria. Quella forma di dorata abnegazione che odora di zucchero e che crede alle stelle. La serietà assoluta di chi sa che scrivere è un gioco. E ci si immerge di scatto, come dentro una vasca, senza preoccuparsi se fuoriesce della schiuma. A trascinarci dentro, nel bagno irruento di questa storia, è Fabio Bartolomei, giunto al terzo romanzo con il suo We Are Family (edizioni e/o, 2013).
A prenderci per mano, dalla prima pagina, è Al, diminutivo di Almerico. Forse perché il nome è l’unico frammento che si possa arginare. Al infatti, quando si sveglia il romanzo, un attimo dopo la copertina, ha solo quattro anni. Ma non sembrano mai pochi. Perché Al è un genio, un bimbo superdotato grande abbastanza da assumersi l’onere di raccontare. O meglio, di condurre il gioco.
Siamo nel 1971, nella Roma del Gazometro, anno in cui il Pakistan si spezza e un suo derivato inizia a chiamarsi Bangladesh, anno in cui si guastano lavatrice, frullatore, giradischi e Jim Morrison. La famiglia Santamaria si compone di quattro elementi: papà Mario Elvis, perché sembra e idoleggia quel cantante cotonato; mamma Agnese, bella come Grace Kelly, ma sprovvista dei suoi parrucchieri; la sorella Vittoria, con le dita friabili da cui scivola ogni cosa e poi lui, quel figlio al di là di ogni schema.
I Santamaria non sono ricchi, almeno non di quello che si deposita in banca o si tesaurizza sotto un mattone. Mario fa l’autista del 170 e Agnese confeziona ciambelloni con asteroidi di cioccolato. Eppure, il loro segreto equilibrio di seta, quel filo di armonia cucito nel tempo di sudori e rinunce, riesce a renderli felici. Perché sanno che i sogni pesano più delle minestre.
Così Al sa perfettamente che suo padre “in realtà” è un astronauta e che sua madre è una principessa senza rossetto. E quando un giorno il padrone aumenta l’affitto e urge per tutti una nuova casa, Al capisce che i suoi poteri magici, quella testa in continua ebollizione e incapace di dormire, devono canalizzarsi alla ricerca di una soluzione, prima di spingersi a salvare il mondo.
Perché la loro vita regale può continuare solo a bordo di una reggia. E allora niente è impossibile, neanche fingersi adulto e traghettare un’auto fino a dove serve, fino a strade non indicate sulla mappa del Monopoli. Quello che serve pilotare è la propria volontà, il resto si accenderà di conseguenza. E pare semplice anche a noi il suo universo strampalato, la sua curiosità incendiata che lo porta a bruciare una tenda per vedere che succede, per assistere alle meraviglie quotidiane di quello che i grandi sotterrano in fretta. I sorrisi, le bocche spalancate, la facoltà di buttarsi senza pensare alle camicie che si sfaldano, perché «il giorno in cui hai cominciato a giocare stando attento a non sudare, a non sporcare i pantaloni, a non graffiare le scarpe, ecco, quel giorno hai iniziato a invecchiare».
E dal “basso” del suo cielo così giovane, Al vede chiaramente ciò che sfugge anche ai giganti della Terra, legge contraddizioni e sbavature, proponendo alternative surreali quanto efficaci. Con battute e intuizioni degne di uno sceneggiatore, Al sa bollare i walzer inetti della politica, gli attentati, il terrore del piombo, l’austerity, la carovana pagliaccesca di ciò che fa notizia e che appare tremendamente solenne solo perché si affaccia sul giornale.
Una per tutte: «Ho sentito che un ragazzo di sinistra, un mancino come me, è stato ucciso con una coltellata e che un uomo ha ammazzato la moglie in casa con una fucilata. […] Uccidere è la cosa più cattiva che può fare un vecchio, come rubare la merenda, che è la cosa più cattiva che può fare un bambino. Quindi gli uomini capaci di uccidere il ragazzo mancino e la moglie non sono altro che bambini ladri di merende diventati più grandi e quindi più cattivi?»
Ogni anno che passa Al cresce a modo suo, potenziando ancora la sua intelligenza e comunque non arrendendosi mai a diventare adulto. Qualcosa di lui resta lì, gattona accanto ai suoi esperimenti. E lo rende speciale. Un eroe senza mantello. Fino alla fine. Se è fattibile parlare di Al senza riferirsi all’autore, è perché in questo caso è accaduto quello che raramente si realizza: lo scrittore è scomparso. Ovvero è rimasto dov’era, nelle sue parole, nell’idea di quel mondo definito racconto che, plasmato con cura, con amore per ciò che si dice e un pizzico abbondante di autentica bravura, diventa più vero del vero.
Commovente, tenero, geniale, un esempio trasparente di ciò che può succedere quando la fantasia incontra il talento e raggiunge la purezza di un’espressione semplice, di un cuore chiarissimo che non si corruga. Che ci insegna la magia senza la beffa di scoprire il trucco.
(Fabio Bartolomei, We Are Family, edizioni e/o, 2013, pp. 240, euro 17)
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