“Heartland” di Anthony Cartwright

di / 7 marzo 2013

Fallimento. Una parola senza appello ma pronunciata senza tirarla troppo per le lunghe. Senza compiacimento – per quel che può riuscire alla letteratura, va da sé. Il romanzo Heartland di Anthony Cartwright (66than2nd, 2013) è una storia di fallimenti, individuali e collettivi, detti con una lingua scabra, senza vezzi, denotativa – almeno, stando alla lettura in traduzione (a opera di Daniele Petruccioli). Diversi personaggi – in particolar modo Rob Catesby, insegnante di sostegno faticosamente alle prese con classi piene di immigrati e una carriera mancata da calciatore – che si agitano intorno a due partite di calcio e dentro vite, è il caso di dirlo, traballanti e senza sbocchi.

Nonostante la premessa poco allegra, il lettore ha la sensazione di avere a che fare con qualcosa di essenziale: le storie e i personaggi vanno avanti e indietro, ogni tanto si perdono per poi tornare, ma è un mondo, quello squadernato davanti al lettore, che sembra molto prossimo a una “vita vera”, recente e maledettamente seria. Ambientato nel 2002, durante i mondiali asiatici di calcio nell’Inghilterra dei distretti siderurgici, in cui convivono a fatica nativi e musulmani, pronti a darsele di santa ragione in una banale partita di calcio, mentre la squadra nazionale è impegnata contro la nemica di sempre, l’Argentina, il romanzo mostra come le crisi dei nostri tempi, fra crolli economici e nuovi scontri culturali, flagellino le classi sociali più deboli insinuandosi velenose anche nella loro vita privata, nelle relazioni fra le persone, e nella fiducia che i poveri cristi non riescono più ad avere in se stessi: «Tom ci provava eccome, a essere un buon marito, un buon padre, un brav’uomo, per quel che ancora poteva voler dire. Non durava».

Sulla scia di un ruvido ma tutt’altro che “semplice” realismo (prendiamo la nozione con ovvio beneficio d’inventario) che in terra inglese vanta un’importante tradizione, Cartwright – nato a Dudley nel 1973 – non perdendo mai di vista il racconto (il calcio è un po’ il centro nevralgico da cui muove la macchina narrativa – anche qui: con una perizia già sperimentata nella corrente letteratura di quelle parti) – richiama la natura politica del nostro stare al mondo – che se ne sia consapevoli oppure no (in terra inglese ma anche no). Fra l’allucinazione dei grandi schermi (in cui campeggia la figura di David Beckham) e un match fra indigeni e musulmani impregnato di valenze tutt’altro che sportive, la vita delle persone, per quanto impegno ci mettano, pare trascinata dai flussi della storia in una frantumazione delle certezze sociali, del lavoro per esempio, che i partiti nati per difenderlo hanno dimenticato: un sentimento di disfatta tradotto nel paesaggio delle West Midlands in cui le fabbriche spariscono e lasciano un vuoto spettrale.

In Heartland il calcio è un po’ lo spazio-tempo di una nemesi, o forse solo una fuga, una rappresentazione catartica che liberi dal soffocamento questa nuova umanità fragile ma reattiva, cui non mancano vitalità e memoria della bellezza – di quella che potrebbe essere bellezza della vita. La stessa che giustifica un romanzo come questo, onesto e sgangheratamente virile.


(Anthony Cartwright, Heartland, trad. di Daniele Petruccioli, 66tha2nd, 2013, pp. 289, euro 17)

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio